25 APRILE: UN PASSO INDIETRO

Non ho mai amato il venticinque aprile. Niente da fare, non è la mia festa. Per lo meno, non alle condizioni e con il significato che vogliono assegnargli gli organizzatori.
E quest’anno, se possibile, l’ho trovato peggiorato. Poiché la commissione d’esame per la patente di legittimo frequentatore degli agoni politici nazionali staziona stabilmente a sinistra, comandino oppure no, ecco che quest’anno la materia è stata ancora più tosta.
“Devi prendere posizione dura e pura su fatti consegnati alla storia, altro che un banalissimo mandare avanti il Paese!”, è stato il titolo del tema assegnato dalla commissione. E tutti testa a cuocere, penna o microfono in mano.
Insomma, mai come quest’anno – dopo tutti i proclami del recente passato – si è cercato a tutti i costi di far entrare la storia nella politica. Un vezzo marxista e gramsciano, nel quale da noi c’è chi indulge per non scomparire ed avere almeno un argomento (la sinistra comunista) e chi non capisce e ci casca (tutti gli altri). E mai come quest’anno, proprio quando sembrava che finalmente si stesse prendendo la strada opposta, è risuonato forte l’invito: “Ma la volete smettere di avere torto?”. Cento a zero. Rosso e nero. Tutto o niente. In questa logica binaria gli organizzatori di quella che un caro amico definisce “la festa dell’odio” vorrebbero la pacificazione. Tutti sotto la bandiera di chi aveva l’unica, vera, immarcescibile ragione. “Festa di tutti gli italiani sì, ma alle nostre condizioni”.
Grazie, ma preferisco di no, e mi tengo il mio torto e i miei dubbi.

Per chi desiderasse accostarsi alle riflessioni sull’antifascismo da posizioni originali e non omologate rispetto a quella che Renzo De Felice definiva “la vulgata resistenziale”, suggerisco a tutti un bellissimo libro, “L’antifascismo critico”, uscito nel 2005 e scritto con la profondità che ben gli conosciamo da Mario Bozzi Sentieri, un grande amico del Casello. Di seguito ne potete leggere una sintetica presentazione.
L'antifascismo ha perso, nel corso degli anni, il suo significato originario, politicamente ed etimologicamente corretto, di opposizione al fascismo.Esso è diventato una sorta di ideologia di Stato, tanto generica quanto onnicomprensiva, sotto la cui cappa si sono sviluppati i più diversi orientamenti politici.Questo tipo di approccio, estremamente formalistico, ha trasformato l'antifascismo in uno strumento di potere, comprimendo, nello stesso tempo, ogni serio dibattito sull'essenza dell'opzione democratica, sancita dalla Costituzione, e sui complessi rapporti storici con il Ventennio fascista, con la crisi dell'identità nazionale, con le lacerazioni provocate dalla guerra civile.Temi questi, nei confronti dei quali, per anni, è stata messa la sordina, in ossequio proprio all'ideologia fondante del formalismo antifascista.La crisi delle forze politiche e dei relativi riferimenti ideali che, sotto la cappa dell'antifascismo hanno costruito, per un cinquantennio, le loro rendite di posizione, ripone, pone nuovamente, il problema dell'approccio con l'antifascismo, con una sua corretta lettura storica e politica.In questo tipo di "rilettura", che stenta ancora a diventare consapevolezza diffusa, si sono tuttavia già impegnati, nel corso degli anni, ambienti diversi tra loro per provenienza culturale e politica.Da qui, dalle loro analisi, da un approccio critico nei confronti dell'antifascismo, occorre ripartire, al fine di riposizionare l'intera, complessa materia, ritrovando l'essenza dei vari approcci problematici al tema, la loro diversa, più ampia, declinazione.Senza negare l'antifascismo quale fu, ma anche superandolo, sulla base di una nuova consapevolezza storica e di una sua rilettura non formale".
Mario BOZZI SENTIERI,
L’antifascismo critico, pag. 102,
Edizioni Pantheon, Roma 2005, Euro 7,00.

QUALCOSA DA REFRESCIARE

Ci sono cascato ancora. Sono stato ad una riunione. Di quelle con al centro finanziamenti ed investimenti, managerialità e proattività, che esistono ancora, nonostante il brutto clima che li ha perseguitati negli ultimi mesi.
E’ vero, dovrei evitare. Lo so che maltrattano l’italiano, e poi ci resto male (il correttore di Word, ad esempio, mi sottolinea subito “proattività”, perché non esiste, ed è una parola orribile e senza senso). Però mi intriga ascoltare i relatori, ne imparo sempre di nuove. Prendo appunti sul loro idioma - “idioma”, con la “m” - più che sul resto, ma così facendo non perdo una battuta. Avessi seguito questa strada anche a scuola!
Questa volta la mia attenzione è stata catturata dai verbi. Eh sì, perché ormai siamo ben al di là dell’abuso del singolo termine anglo (a proposito: niente mi toglie dalla testa che il cicisbeo al microfono ne faccia un uso di tipo sacerdotale, della serie: “Io ho il rito e la scienza, e te la infondo, per quanto mai potrai capirmi”).
Ora siamo arrivati felicemente all’italianizzazione del verbo da utilizzare. Mi sono ormai rassegnato a sentire e leggere il verbo “supportare”, che - come ho già ricordato – in italiano non esiste. Ho però scoperto la possibilità di refresciare, da “to refresh”, cioè rinnovare, rinfrescare. “Stiamo refresciando la gamma dei servizi”, anche se troverei più pertinente refresciare il vocabolario.
Capita spesso che ci sia anche qualcosa da apgradare (da “to upgrade”, cioè portare ad un livello superiore, aggiornare con miglioramenti). “Abbiamo apgradato l’applicativo di sistema”, trillano festosi questi aspiranti Fratelli Lehmann ai quali – per contro – si daungrada il cervello di giorno in giorno.
Come ci siamo già detti, si può anche accettare l’utilizzo del termine alloglotto se aiuta a sintetizzare un concetto che altrimenti necessiterebbe di prolisse ed imprecise perifrasi: è il caso di “sport”, la cui mancanza ci obbligherebbe a parlare pressappoco di “attività per lo più fisica finalizzata generalmente alla competizione”, o chissà cos’altro.
Trovo però assurdo da un lato sostituire un termine italiano con uno d’importazione quando il risultato non cambi, o – ancor peggio – infilarsi in una circonlocuzione ridicola pur di fare uso di una di quelle formule che servono a far sentire appagato il fine dicitore. E’ il caso di “rendere compliant” (complaiant), che vorrebbe significare accordare, sintonizzare, mettere in fase. Mi piacerebbe, e molto, rendere complaiant lingua e cervello del protagonista di questa scemenza.
I verbi, sì. E poi qualche vocabolo: da “plas” (si scrive “plus”, è latino e quindi si pronuncia “plus”) alla “reason why”, cioè la ragion per cui. Con qualche effetto comico, come ad esempio l’utilizzo dell’aggettivo “basico”. In inglese “basic” vuol dire “di base”. In italiano no. Si contrappone, in chimica, ad acido. I ragionamenti fatti da qualche sbarbatello anelante la considerazione dei suoi superiori, per essere basici, sono un po’ troppo acidi.
Potrebbe essere il caso di refresciarli un po’.

GUSTAVO, ALBERTO E DEBBIE: I PIU' GRANDI.

Sta volgendo al termine, in questi tiepidi giorni di inizio primavera, una stagione sciistica particolarmente ricca, quest’anno, per gli appassionati, che hanno potuto beneficiare di un inverno che non ci ha fatto mancare niente: neve in abbondanza e più volte al rabbocco e freddo hanno allungato sensibilmente il periodo, riempiendo le piste alla faccia della crisi.
Poca gloria, invece, per i colori azzurri nelle competizioni agonistiche internazionali. Coppa del Mondo con qualche sporadico acuto, specie nel finale, Campionati Mondiali in sordina e l’impressione che la generazione attuale – quella dei Rocca, dei Blardone, delle Karbon - stia lasciando il passo a successori ancor meno brillanti.
Eppure, in un passato neppure troppo remoto, ci sono stati almeno due momenti nei quali l’Italia ha rappresentato il faro illuminante dello sci mondiale. Periodi in cui una squadra di grandi campioni esibiva anche la gemma più preziosa della collezione.
Con i nostri colori, fuoriclasse ne ho visti tre: Gustavo Thoeni, Alberto Tomba e Deborah Compagnoni.
Il primo era la classe allo stato puro: tra i pali una gazzella, elegante, imprevedibile, così lieve da imporre uno stile a tutti gli altri (il “passo spinta”) e da stagliarsi al di sopra di campioni tutti grinta ed aggressività (Pierino Gros) e raffinati specialisti (Ingemar Stenmark). Si può ben dire che l’industria dello sci nostrano gli debba un monumento: da lui in avanti gli sport della neve sono diventati fenomeni di massa, e griffes fino ad allora semisconosciute hanno fatto il giro del mondo.
Alberto Tomba, invece, ha rappresentato praticamente l’estremo opposto: potente, imprevedibile, grande agonista, guascone, fu definito da Mario Cotelli “l’unico sciatore quattro per quattro, a trazione integrale”. Tra i pali, quando già trionfavano i grandi eclettici (Girardelli, Zurbriggen) impose di nuovo la forza dello specialista. Era il signor “io so fare questo meglio di chiunque”, e lo dimostrò per un decennio.
Debbie è stata infine la sintesi al femminile dei due. Al contempo elegante e potente, determinata e dolce, si è contrapposta alle algide e inarrivabili snob della sua epoca, come Carole Merle (amica, amica, amica un…). E infatti, negli appuntamenti decisivi, le legnava sempre.
Oggi , purtroppo, come questi tre non se ne vedono. Bravini sì, e anche tanti, ma lasciano sempre l’impressione che manchi loro un centesimo per fare il milione. Fino al prossimo, imprevisto, imprevedibile fuoriclasse.

BUONA PASQUA!

La Pasqua, si sa, è la ricorrenza più autenticamente cristiana, la sintesi del mistero del Dio fattosi uomo che completa il percorso che porta alla vittoria della vita sulla morte.
E’ il centro della fede in Cristo, il motivo spirituale che accompagna il credente lungo l’esistenza, nella speranza della parola ultima che il bene ha sul male, la vita sulla morte, la luce - la luce che infatti è protagonista della Veglia Pasquale - sulle tenebre. Una speranza che non è l’attesa statisticamente probabile di un evento favorevole o l’inane vagheggiamento di un domani perfetto, ma l’operosa condizione che porta il cristiano ad intraprendere la costruzione della dimensione ultraterrena già qui, su questo mondo.
Fa un certo effetto, proprio in questi giorni di sofferenza per la coraggiosa gente d’Abruzzo, ripensare a questi misteriosi percorsi. La vita che vince la morte, il costruire da zero un oggi che è già domani e che cerca di recuperare il buono di quanto fatto fino a ieri, evitandone gli errori.
Dal Casello parte, per tutti, un treno di auguri di buona e serena Pasqua.

COME LASCIARE IL SEGNO...

Dieci anni di bidoni rossoblucerchiati raccontati da Francesco.
1999-2009 10 anni di alti e bassi per il calcio rossoblucerchiato, forse ora davvero tornato ai livelli che tutti noi speravamo; Milito, Cassano, Pazzini e Thiago Motta, Matteo Ferrari e Palombo…giocatori sicuramente che qualche anno fa ci saremmo sognati!
Ma quanti giocatori-bidoni sono passati sotto la Lanterna?
Andiamo indietro giusto di due lustri e iniziamo a ricordare i rossoblù Marquet, Bolla, Carfora e Pelliccia…ma non dimentichiamoci di Eddy Mengo!
Di quest’ultimo giocatore, un terzino destro, i giornali genovesi dissero che fu sottratto alla Juve!
Forse non specificarono che il “furto” d’astuzia in sede di calciomercato fu perpetrato non alla “Madama ruba scudetti” ma evidentemente alla Juve Stabia…date le scarse abilità del giovane ex fermano!
Per la Samp quell’anno arrivarono Sgrò, che non esplose mai, il pacco “English” Sharpe, e il migliore amico di tutti i baristi di Nervi e Sturla…Catè Lemes Tozze!
Poi negli anni a seguire fu la volta di Macaluso e l’eterna promessa Zè Francis.
Scorrendo gli almanacchi arriviamo a Martino Traversa (ricordato per un espulsione gratuita in un derby di B vinto dal Genoa, per un fallaccio d’esasperazione su Carparelli), Bedin, Jurcic, Bolano e una piccola citazione anche per Massimo Marazzina, arrivato per esplodere a suon di gol e finito nel mirino dei tifosi della Sud.
Il Genoa, però non fu da meno: arrivarono il “metronomo” Breda, il veloce Rimondini e il panzer Sobczack; a seguire negli anni il nuovo Buffon di Tunisia, Chockri El Ouer, la pantera del deserto Mhadebi e l’oggetto misterioso Marius Sava…tutti “pacchi”!
Peccato però che anche negli anni a venire, i rossoblù si riempirono dei vari Mario Cvitanovic, Scantaburlo e Piotr Matys; toccò poi anche al “portierone” olandese Oscar Moens e al nippo-svedese Ishizaki.
La Samp, però rispose con una promessa del calcio giovanile, Biagio Pagano, ragazzo dotatissimo ma discontinuo e acerbo;poi fu la volta di un ragazzo del Sol Levante, rimasto famoso più per il coro dedicatogli alla Sud che per le sue gesta calcistiche: Yanagisawa.
Gli ultimi da citare in casa blucerchiata sono più “invenzioni” giornalistiche che geni del pallone; secondo i “maestri” della carta stampata arrivarono a Genova dei veri fenomeni: Kutuzov, Artipoli, Padelli, Zamboni, Zivanovic, Miglionico, Bonanni e Gulan…nessuno di loro ha lasciato il segno!
Nota a parte per il figlio di un nuovo “amico” della nostra Italia: Al Saadi Gheddafi, figlio del leader libico, giunto in blucerchiato più per motivi economici che calcistici.Il Genoa, nella storia recente fece vestire la sua gloriosa casacca a svariati “fenomeni” pescati qui e là per l’Italia e il mondo ma, tutti, dopo una breve esperienza lasciarono Genova; ricordiamo, con poca malinconia, Grando, l’uomo GEA Mamede, Giuntoli, Biasi, Pedro Lopez, Zeytulaiev, Lanza e Wilson.