AIUTO, ARRIVA LA POSTA ELETTRONICA!

In mancanza ed in attesa di riunioni con le quali esercitare le orecchie ed il gusto per la lingua che fu di San Francesco, Dante e Manzoni, di quando in quando mi soccorrono i messaggi di posta elettronica.
E’ piuttosto frequente, nell’utilizzatore di questo fondamentale e ormai irrinunciabile strumento di comunicazione, lo sbarellamento linguistico fatto di abbreviazioni e onomatopee: “che” scritto con la K (“ke kazzo state skrivendo?”), “non” abbreviato in “nn” (come gli insegnanti di italiano di questi somari), oppure la formula “fyi”, in coda al messaggio (che sembra - e probabilmente è - un raglio, ma vorrebbe significare “for your information”, perché il vecchio, caro “p.c.”, cioè “per conoscenza”, è troppo dialettale), e via ranzando.
Tra le ultime chicche - con la “i”: meglio precisare, visto cosa accade in certe regioni d’Italia – ecco presentarsi il “basic point”, forma asinina del già deprecabile “basis point”, adeguatamente vituperato in passato su queste pagine.
Sarei poi curioso di sapere cosa sia la “flattizzazione”, da non confondere con la flatulenza linguistica dell’estensore: perché non utilizzare un sostantivo derivato dal verbo “uniformare” (pur in sé non certo brillante), al posto di questa grottesca italianizzazione del tremine anglo “flat”, che significa “piatto, piano”?
Da non trascurare nemmeno quanti, in coda alla loro missiva, ti chiedono di fare una certa cosa “per favore”, scrivendo “pls” (cioè “please”), oppure ti ringraziano scrivendo “thks” (“thanks”). Ma vfc!
Interessante anche l’abuso della locuzione “Certi di fare cosa gradita…”, in testa o in coda a messaggi recanti per lo più pessime novità. Ci vuole una discreta dose di faccia come le terga per scrivere amenità come: “Certi di fare cosa gradita, vi inoltriamo l’elenco dei reclami della clientela trasformatisi in denunce nei vostri confronti presso la Procura della Repubblica”. Però, se non proprio in questi termini, succede anche questo…

BERSANI, LA MUFFA AL POTERE.

Qui al Casello, si sa, non siamo propriamente di sinistra. E neppure siamo tra quelli che non credono più alla distinzione fra schieramenti ed ideologie, in nome di un concretismo bottegaio che non ci appartiene. L’affetto per le tradizioni e l’attenzione verso il nuovo sono complementari in una visione organica della realtà politica.
Detto questo, non ci si può esimere da una veloce valutazione sulla (prevedibile) vittoria di Pierluigi Bersani nella corsa alla segreteria del PD.
Vista da avversario, c’erano buoni motivi per tifare a favore del successo dell’uno o dell’altro dei due (tre, ma Marino non è mai sembrato in corsa sul serio) contendenti.
Franceschini sembrava incarnare un modo di vedere e fare innovativo, fingendo pragmatismo assolutista antiberlusconiano e assenza di ipoteche ideologiche, smentite però dai continui richiami alla Costituzione e all’antifascismo (che, come i lettori del Casello sanno bene, è il mio personale peggior nemico, e condiziona come poche altre cose i miei giudizi). L’eterno ragazzo emiliano si è però dimostrato ingenuo nell’approccio e velleitario nei presupposti: impensabile cestinare in pochi mesi una lunga tradizione fatta di sezioni e Feste dell’Unità. A ciò ha abbinato fin da subito un atteggiamento manicheo e paradipietrista che ne facevano un interlocutore pessimo (o, meglio, un non interlocutore) per chi ipotizza finalmente rapporti di civile convivenza tra maggioranza ed opposizione. La sua eventuale vittoria avrebbe avuto sull’elettorato di area progressista una forte presa identitaria ma senza portare, probabilmente, un solo voto in più.
Bersani, al contrario, rappresenta il vecchio, il già visto, l'ammuffito, il rassicurante trionfo del “si è sempre fatto così”, non importa se con ragione o con torto. Ora proverà a rimettere in sesto i cocci di una coalizione pietosa, che si coagulerà contro il nemico usurpatore pur cercando in qualche modo di compromettersi con esso. Qualche volta riuscirà persino a vincere, ma – come in passato – non a governare, troppo compressa tra le diverse ed inconciliabili anime del suo variopinto catalogo.
Alla fine, la mia impressione è che il vero vincitore di questa tenzone sia Pierferdinando Casini, il quale attendeva in regalo proprio questo esito: i transfughi (che non saranno pochi, né marginali) proveranno per l’ennesima volta la carta del Grande Centro. Cosa dite, amici del Casello: stavolta la faranno uscire?

CASCINA ROSSA, PROFUMI DI LANGA


La passione e la curiosità per il mondo del vino mi conducono spesso per mano, ad assaggiare senza intenti scientifici e, quindi, da dilettante (nel senso migliore e letterale del termine: colui che si diletta) etichette e provenienze che non conosco. Lo scopo, ben poco nascosto, è quello di cercare e trovare quelle perle – oggi non così rare, ma sempre preziose – che si nascondono nelle tante ostriche della grande tradizione italiana.
Racconto oggi di due vini che hanno fatto suonare le campane a festa, colpendo l’immaginazione quasi quanto il palato e regalando momenti di poesia ai cinque sensi (oh, yes! Tutti e cinque, tatto e udito inclusi).
Parlo dei due vini che ho avuto il piacere e l’onore di degustare prodotti dall’Azienda “Cascina Rossa” di Valle Talloria (CN), famiglia Veglio: Nebbiolo d’Alba e Dolcetto di Diano d’Alba “Sorì Utinot”.
Entrambi raccontano, più e meglio di tanti discorsi (e quindi soprattutto dei miei), della passione storica e familiare per il proprio lavoro e la propria terra, il rispetto del connubio fra tradizione ed innovazione, il gusto per le cose belle e fatte per durare.
Per non smentire quanto appena solennemente proclamato eviterò di addentrarmi nelle descrizioni tecniche che fanno colto e che piacciono a chi ama il “vino parlato” anche più del “vino bevuto” (n.d.C., nota del Casellante: è un problema diffuso, caro amico del Casello: pensa – ad esempio – al rapporto tra “sesso parlato” e “sesso praticato”…).
E parto dal Nebbiolo, un vino di nobile progenie e di gran stoffa, austero ma rotondo, quasi impegnato a smentire chi ne considera le uve come mere fornitrici di Barolo e Barbaresco.
Di colore rosso rubino intenso, ciò che più colpisce è l’armonia sviluppata in tutte le dimensioni olfattive e gustative, un equilibrio che ne fa il commensale ideale per paste fatte in casa (che so, i mitici Tajarin o gli agnolotti) e le carni grigliate.
Eccellente il Nebbiolo, eccellente anche il cru “Sorì Utinot”, Dolcetto di Diano d’Alba che sa essere al contempo gioviale e vigoroso, quasi a voler sintetizzare la dialettica in voga da qualche anno sull’essenza di questo vitigno così tipicamente piemontese da vantare addirittura dodici DOC diverse (più un paio di DOCG). C’è chi, tra le due fazioni, lo vuole fresco e beverino, come da tradizione, e teme che l’eccesso di alcolicità e il passaggio in legno ne travisino il significato tradizionale, rendendolo anonimo; e chi – al contrario – vede nell’affinamento e nella maturazione un contributo all’esaltazione di caratteristiche da sempre ben presenti ma in precedenza lasciate soltanto all’immaginazione.
“Sorì Utinot”, a parer mio, li mette d’accordo tutti. Dal colore rosso scuro con sfumature dal fucsia all'indaco, al naso evoca i prati di maggio, in una sinfonia che ricorda alcuni Dolcetto monferrini (come certi squisiti ovadesi) più che langaroli, e al gusto riempie il palato con la gioiosa fragranza dei piccoli e morbidi frutti rossi (dalla ciliegia alla mora) che sembra richiamare.
Davvero davvero davvero, amico del Casello: sorprese piacevoli. Un sorso, e le rudezze della vita ordinaria, per un lungo e caldo momento, sono fuori dal radar.

UN ANNO AL CASELLO!

E’ trascorso un anno da quando, senza troppe conoscenze né capacità, e persino con poca attenzione verso cosa come quando eccetera, il vostro Casellante è salito sul primo treno e ha raggiunto questa sua destinazione.
Un anno intenso, ricco di eventi, denso di fatti e curiosità, molti dei quali hanno avuto eco sul nostro nodo di scambio che poi ha trattato anche spesso argomenti poco risaputi e più “de noantri”.
Seimila le visite, cinquecento al mese, isole incluse, che per un’iniziativa ignorata dai media principali e finora (deliberatamente) passata sotto traccia sono davvero una cifra ragguardevole. Un traguardo importante di suo, ma anche utile per comprendere quale direzione intraprendere, in che modo proseguire.
Il secondo anno al Casello porterà altre novità: qualcosa muterà nella grafica, i contenuti verranno costantemente aggiornati, si punterà ad allargare la cerchia degli amici (e, aggiunge il Casellante, anche quella dei nemici).
Una cosa però il Casello chiede ai suoi amici: una maggiore intraprendenza nella partecipazione. Al momento della partenza in tanti avevano giurato presenza attiva, mentre invece note, commenti e contributi sono stati numericamente scarsi, soprattutto in rapporto alle visite (quelle, al contrario, sostanziose).
Sappiamo per certo che la pigrizia è il nemico da combattere e vincere. Poiché intervenire è molto semplice e non richiede né autenticazioni né registrazioni, proviamo ad eliminare questa nostra ingombrante compagna di vita.
Evviva!

PER UNA VERA LIBERTA' DI STAMPA

Tanti di voi lo sanno, sono un giornalista. Lo sono non “lo faccio”. E’ un mestiere che – al pari di pochi altri - coinvolge l’essere, non l’occuparsene. A questa professione tengo particolarmente perché è la mia, quella che voglio, quella che sono capace di fare, io, comunicatore per indole e attitudini, perfino a prescindere da dove mi possano portare le contingenze e le necessità di bottega.
Conosco quindi piuttosto bene le dinamiche che muovono questo mondo, con l’aggiunta che ho anche la fortuna di vivere due diversi contesti lavorativi talmente spaiati tra loro da consentirmi raffronti audaci ma con cognizione di causa.
E allora: se il “padrone” azienda finanziaria (o commerciale, o industriale) – con tutti i difetti che possa avere – appare infinitamente più serio (rispettoso degli impegni e delle persone, organizzato, preciso) del “padrone” editore, sul piano dell’espressione individuale la bilancia pende esattamente dall’altra parte. Il giornalista gode di licenze che il più callido impiegato nemmeno s’immagina.
Ciò premesso, sistemati – da uomo di penna – alcuni puntini sugli “i”, trovo ridicolo – massì, RIDICOLO, MAIUSCOLO – che in Italia si manifesti per la libertà di stampa, contro un presunto bavaglio che un presunto tiranno imporrebbe con la conseguente deriva dittatoriale che tenderebbe a mettere la mordacchia alle voci non allineate.
Ma scherziamo? Possibile che pochi o nessuno si rendano conto di quanto sia cretino sostenere queste teorie strampalate, tutte politiche (partitiche, partistiche, faziose), nel Paese delle seicento testate e delle milleduecento (1.200) emittenti? Chiunque – compreso il vostro Casellante – può permettersi di dire e scrivere quello che vuole, assumendosene la responsabilità. Vi pare poco? Nelle dittature (che so, cari progressisti: diciamo Cuba) succede qualcosa di anche lontanamente paragonabile?
Non è forse libertà di stampa, in uno stato che versa agli editori (che ne fanno un uso fin troppo disinvolto) mille milioni di euro all’anno, unico caso al mondo, poter vomitare veleno sulla fazione che si intende avversare, a monte e a valle del fatto che ciò che si scrive sia vero o anche solo verosimile?
Un atteggiamento cialtronesco e poco credibile, salvo per i gonzi che “l’importante è dare addosso all’usurpatore illegittimo”, e chissenefrega – in nome della democrazia – se la gente lo ha votato. Le elezioni sono dopate, estrogenate dal tiranno, quindi invalide, e il risultato anticostituzionale. Lo scrivono, poverini, però non si sentono abbastanza liberi…
La stampa è libera, altro che idiozie: sono certi suoi esponenti a non esserlo.