50 ANNI, E SENTIRLI PROPRIO TUTTI!

Stasera sono rientrato a casa tardi. Genova era bloccata. Non pioveva, scuole chiuse da tre settimane, ora di punta quasi passata… E allora?
E allora, in pieno centro, andava in scena la celebrazione della vergogna. Organizzata da CGIL e ANPI, ecco la marcia (nel senso di femminile di “marcio”) per ricordare una delle pagine più turpi della storia recente: le manifestazioni che nel 1960 impedirono, in nome della democrazia, l’esercizio della democrazia. Che per un partito politico – il Movimento Sociale di Michelini e Almirante – voleva dire poter tenere il proprio congresso.
Sono passati cinquant’anni, e uno dovrebbe poter pensare ad un superamento di questa fase storica, che era sconcertante anche allora ma che poteva essere giustificata in nome delle divisioni che avevano portato l’Italia dal fascio allo sfascio.
E invece no. Per poter giustificare la propria permanenza in vita, ecco i soliti, più democratici degli altri, a cercarsi un palco ed una platea alla quale gridare forte e chiaro che anche oggi si attenta alla libertà e alla Costituzione, ma oggi come allora – o noi fortunati! – ci sono loro che vigilano, non abbassano la guardia ed impediranno.
Ad esempio, hanno impedito una legittima manifestazione che da destra voleva ripercorrere quei momenti in una lettura diversa, da un’altra angolazione. Il che, evidentemente, è vietato. In nome della democrazia.
Ultimo pensiero per le “autorità”: invece di prestarsi finalmente ad una sintesi superiore e moderna, scevra da coinvolgimenti storici assurdi – specie dal punto di vista di quel verme di Alessandro Repetto, che da ex democristiano farebbe bene a rileggersi un po’ di storia del suo partito a Genova – eccoli nelle piazze, vere o mediatiche, a dire la loro. Che è la stessa di questi cialtroni. Purtroppo la città esprime la classe dirigente che ci meritiamo. La Medusa, il verme, il gerundio. Lo ripeto: o noi fortunati!

POMIGLIANO: UNA PARTITA DA VINCERE

Mille e mille gli argomenti, cari amici del Casello, che da tempo – complice un intoppo informatico imprevisto – mancate della vostra ferrovia virtuale per far circolare idee e faccende.
Ce ne sarebbe, davvero: il federalismo, i Mondiali, la sempre più involuta conduzione della sindachessa medusa, treni e bus, la marea nera, le intercettazioni…
Ci sarà modo, spero. Ma la prima cosa che porto alla vostra riflessione è la situazione di Pomigliano d’Arco ed il rifiuto dogmatico, ideologico, della CGIL di firmare l’accordo con la Fiat.
Un accordo che chiede impegno ai lavoratori, e qualche rinuncia. Ma che in sostanza dice: se la facciamo così, noi portiamo qui dalla Polonia (dalla Polonia!) la linea di produzione della Fiat Panda. Non c’è un’alternativa: se la proposta della Fiat non passa, lo stabilimento chiude. Punto.
La CGIL dice di no, unica tra i sindacati. E il sospetto che dietro ci sia qualcosa di diverso dalle semplici ragioni dei lavoratori è forte.
Proviamo però a spingerci al di là delle impressioni, con alcune note analitiche. La prima. La CGIL – è evidente – oggi più che mai è asservita ad una logica di potere che contrappone due schieramenti. I suoi no, un tempo classisti e ideologizzati, sono oggi spesso frutto di logiche politiche che cercano un risultato opportuno, quando non opportunistico. Il fatto di essere l’unico sindacato, a parte qualche sigla autonoma, a contrapporsi sempre a Berlusconi e al Centro Destra pesa, in termini di tessere, perché permette di cavalcare un malcontento che sempre è esistito e sempre esisterà, brandendo però la spada del purismo e del “io-non-mi-vendo”.
Dire di no a Pomigliano, farne fallire le logiche, contribuisce ad eliminare un pericoloso successo governativo dall’agenda politica e sindacale, perché è altrettanto certo che i ministri dell’attuale compagine se ne farebbero vanto.
La seconda. La CGIL – su un piano più strettamente sindacale – teme, non senza fondatezza, che la ricetta Pomigliano possa estendersi a tanti altri plessi industriali della Penisola. E’ vero che svecchierebbe il repertorio da (pessimi, trovo incredibile che ci sia chi sostiene il contrario) anni settanta dell’industrializzazione italiana, ma probabilmente allenterebbe le cautele sindacali di cui i lavoratori hanno fin troppo abbondantemente fruito nel dopoguerra. Questo, la componente sindacale dei metalmeccanici CGIL – la base operaista e movimentista che tiene le redini della confederazione – non può permetterlo.
E così, spazio al “tanto peggio, tanto meglio”. Con il concreto rischio che Pomigliano chiuda. E che i fautori del principio “O tutto, o niente” – pochi, direbbe Montanelli, inutili e dissennati – tengano in ostaggio una delle poche fabbriche della Campania e una delle poche produzioni che coraggiosamente un’impresa italiana sta cercando di mantenere o addirittura di riportare da noi.