DUE FUORICLASSE DELL'ITALIA UNITA, A TAVOLA E IN CANTINA.



Da un po’ di tempo al Casellante balena in testa un’immagine: l’Italia è unita dalla bellezza. Non è un’astrazione: la bellezza è in tutte le cose di cui abbiamo già parlato (lingua, arte, cultura), ed in tante altre di cui ancora dobbiamo parlare.
L’Italia è unita dalla bellezza e dai tanti artefici di essa. I fuoriclasse, appunto. Tanti, in ogni campo. Ed oggi il nostro omaggio va a due personaggi dei quali pochi sanno, e pochi si ricordano: Pellegrino Artusi e Luigi Veronelli. Perché l’Italia, unita nella bellezza, lo è ancora di più a tavola.
Già, mangiare e bere. E farlo bene. Non è forse arte, e piacere, e trasformare in gioia e volontà una necessità di vita?
Fu così che pochi anni dopo l’unificazione amministrativa Pellegrino Artusi, romagnolo di Forlimpopoli, ebbe un’intuizione geniale: acclarata la grande e varia qualità delle proposte gastronomiche del neonato Paese (ma della bimillenaria Nazione), perché non condurre a sistema questo arcipelago di varietà e di ricchezza alimentare che ogni località sa proporre?
Nacque così “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, la vera e propria Bibbia della grande cucina italiana, destinata a diventare in pochi decenni (di ristampa in ristampa, rimase in libreria per circa un secolo) il punto di riferimento dell’arte culinaria mondiale, soppiantando senza remissione – fa ridere chi sostiene il contrario – la ben meno articolata, ricca e divertente cucina francese.
L’opera di Pellegrino Artusi, che meriterebbe statue in ogni dove lungo la penisola, ebbe come conseguenza quella di smuovere ancora di più la coscienza gastronomica nazionale: furono decine e decine le casalinghe italiane che raccolsero fin da subito l’invito del genio romagnolo, inviandogli ricette, suggerimenti, variazioni sul tema, e contribuendo all’edificazione di un’enciclopedia nazionale del mangiare bene alla quale tutti siamo debitori.
Consolidatosi il patrimonio culinario, nel dopoguerra – tra le tante ricostruzioni – un altro grande personaggio iniziò una battaglia inizialmente solitaria per portare il bere al livello del mangiare, con un’attenzione particolare a quest’ultimo, perché – era la tesi – le due cose non possono che stare assieme. Quest’uomo era Luigi Veronelli.
Penna tra le più straordinarie viste nell’ultimo secolo, lingua graffiante e cultura eclettica, il grande critico lombardo coniò neologismi e metafore capaci di entrare nel quotidiano: fu il primo a parlare di “giacimenti enoici” parlando dell’Italia, ed è a lui che si deve l’esplosione mondiale del vino di casa nostra, da bevanda d’osteria a capolavoro all’avanguardia.
Insistendo sulla qualità e sulla specificità (nell’epoca in cui una sorta di socialismo reale declinato nell’enologia pretendeva si arrivasse ad unico “vino nazionale”, rosso e bianco: roba da far scoppiare una rivoluzione), ebbe e conseguì meriti enormi: quello di “costringere” i vignaioli a lavorare bene, tanto per iniziare, e poi quello di rendere esigenti i consumatori, e ancora quello di marcare le diversità e far diventare a colori un film in bianco e nero, facendo capire a tutti che ogni località del nostro paese sa esprimere tipicità e qualità, se sviluppata in modo adeguato.
Grandi vini del Sud si affiancarono progressivamente alle grandi Doc del Nord e del Centro, antichi vitigni furono riscoperti, altri riportati ai vertici, altri ancora – lavorati con coscienza – si trasformarono da rospi a principi. Il tutto con forti legami con la cucina locale, e dopo un pellegrinaggio di cantina in cantina per capire, scoprire, commentare, spronare. A lui si debbono anche interventi legislativi importanti nel settore, sebbene non tutte le sue intuizioni siano state recepite. A lui si deve anche il boom dell’enologia e dell’applicazione con la quale tanti adepti oggi si dedicano con passione e dovizia al vino, inteso come – lo diceva proprio Veronelli – “canto della Terra verso il Cielo”, così come a lui si deve una delle più belle definizioni di “patria”, che facciamo nostra in questo centocinquantesimo: “ciò che si conosce e si capisce”. Che parla il tuo linguaggio. Che ha la tua stessa storia. Come l’enogastronomia italiana.

LA CULTURA, COLLANTE ITALIANO

La cultura è l’elemento che ha tenuto insieme la Nazione italiana nei millenni, anche quando lo stato unitario era ancora ben lontano dall’essere concepito. Una cultura sempre all’avanguardia, con tratti comuni molto marcati ed effetti di pregio indiscutibile ed assoluto: nessun’opera ha mai avvicinato la “Divina Commedia”, nessun romanzo coevo eguaglia “I Promessi Sposi”, nessun quadro è più famoso della “gioconda”, e poi dici “statua” e pensi a Michelangelo, “opera lirica” ed ecco Verdi, e ci fermiamo qui.
Un’arte universale ed originale, sintesi del mondo che – da sempre – si affaccia sul nostro mare e guarda a noi anche dal buco della serratura. Basti pensare all’invidia spocchiosa dei francesi o a quella da “sempre dietro” degli spagnoli.
Se un difetto ha il popolo italiano (e invece, purtroppo, ne ha molti), quello è l’esterofilia. Si va a Madrid e si visita il Prado, a Parigi è d’obbligo la tappa al Louvre, ma il piccolo o grande museo della nostra città o paese non sappiamo nemmeno esattamente dove sia, o cosa esponga.
Da più parti si sente parlare dell’Italia come di un “museo diffuso”, o anche di un unico, grande museo a cielo aperto. Tutto vero. L’arte, sia quella dei grandi nomi, sia quella degli emuli o degli umili, va gustata con calma, è una forma di cura per la persona che la assume.
Magari in piccole dosi, - le arti figurative, ma anche il cinema, il teatro, la musica, hanno talvolta l’ingiusta fama di portatrici sane di noia – ma facciamola, questa cura. E’ un ottimo antidoto contro la noia vera, la managerizzazione della nostra vita, l’inciviltà imperante.

NON C'E' ITALIA SENZA CRISTIANESIMO

Un aspetto da non trascurare nella storia della Nazione italiana è costituito dall’apporto del Cristianesimo. E’ un paradosso, se vogliamo: non ci sono “italiani” senza la spiritualità e la cultura cristiana, ma l’Italia Unita è nata senza, e per molti versi “contro”, il cattolicesimo dell’epoca.
E’ questo un argomento spesso utilizzato dalla superstizione laicista anticristiana oggi imperante: i cattolici sono rimasti estranei al percorso unitario, non facendosi coinvolgere ed anzi spesso ostacolandolo.
C’è del vero: il potere temporale della Chiesa, ormai a quel tempi in via di esaurimento, scelse di non farsi coinvolgere, vanificando le speranze di quanti (come Rosmini e Gioberti) credevano nel ruolo propulsivo della Chiesa stessa all’interno del processo di unificazione.
Fu un peccato grave, perché l’afflato unitario fu lasciato in monopolio ad una corrente minoritaria (quella liberal/anticlericale), illuminista nel senso deteriore del termine e gravata per contrasto da una forte ipoteca pagana e massonica. Ne portiamo le conseguenze ancora oggi.
Eppure la presenza cristiana in Italia ed in Europa è organica allo sviluppo e alla cultura da due millenni. Le figure di riferimento sono tante e tali da non poter essere citate tutte senza far torti, ma basta chiedersi cosa sarebbe il mondo senza l’opera di ricostruzione iniziata da San Benedetto, senza il ritorno alla spiritualità delle piccole cose di San Francesco d’Assisi, senza l’attenzione ai giovani di San Giuseppe Calasanzio o di San Giovanni Bosco, senza la cura dei più deboli di San Camillo de’ Lellis, o i più recenti Beati Don Luigi Orione, Don Giuseppe Cottolengo o Don Carlo Gnocchi.
Oggi come allora la presenza cristiana nella società italiana è ben radicata, e non tanto sul piano politico (anche se quella stagione ormai tramontata viene oggi da molti rimpianta), quanto sul piano sociale ed etico. Senza, sarebbe un unico, immenso partito radicale, tutto diritti e permessi: il Far West.

150 ANNI D'ITALIA, ANCHE PER LE VITTIME DI TITO E GLI ITALIANI D'ISTRIA, QUARNARO E DALMAZIA


Domani, 10 febbraio, è il "Giorno del Ricordo", dedicato alla memoria delle vittime delle persecuzioni titine ai danni di Italiani nei territori italiani (che non smettono di essere tali) attualmente sotto sovranità di altri stati.
I "martiri delle foibe", certo; ma anche coloro che subirono l'espropriazione di ogni loro bene e dovettero lasciare il "paradiso comunista" del peggior anti-italiano della storia (nel centocinquantenario è bene ricordarselo): il famigerato Josip Broz, "il maresciallo Tito".
Abbiamo il dovere di "partecipare", senza "se" e senza "ma", anche per riparare al torto che bieche ragioni opportunistiche fecero perpetrare ai danni di centinaia di migliaia di nostri connazionali.
Un dovere che deriva anche dal pessimo esempio di come la storia del dopoguerra ci sia stata raccontata, specie nelle scuole. Un dovere che non ammette dimenticanze nè giustificazioni, che pure qualcuno ciclicamente esibisce.
Chi volesse approfondire l'argomento troverà su Facebook la pagina dedicata a Norma Cossetto, la martire che più di chiunque altro incarna la tragedia dei nostri confini orientali.

LA LINGUA ITALIANA, ELEMENTO DI UNITA' NAZIONALE

L'unità di un popolo, di una Nazione, passa attraverso molti elementi: territoriali, etnici, e (forse soprattutto) di linguaggio. Non si può pertanto trattare un evento così importante come l'unità politica della nostra Patria senza fare riferimento al tratto unificante rappresentato dalla lingua, e ai suoi protagonisti.

In principio era il latino: quello classico, certamente, e poi quello ecclesiastico, che - con il contributo determinante della Chiesa (con buona pace del turpe e superstizioso laicismo e del pregiudizio anticristiano oggi dominante) – ha tra i tanti ed enormi meriti quello di aver salvaguardato la cultura e l’arte di una Nazione tale già allora dai barbari assalti.

Poi venne il “volgare”, la lingua di tutti, cioè del popolo: un ceppo unificante e tanti altri piccoli ceppi locali – i dialetti – che ad oggi contraddistinguono le peculiarità del nostro incredibile Paese.

Ne ricorderemo tre, di questi fuoriclasse, ma solo come pietre miliari della nostra lingua. Compariranno anche più avanti nel nostro excursus, protagonisti a se stanti. Sono San Francesco d’Assisi, Dante e Alessandro Manzoni.

Il grande santo fu un vero italiano “ante litteram”, e non per caso è il patrono nazionale: con il “Cantico delle Creature” fu poeta e uomo di preghiera, ma anche sintesi di quanto la lingua nascente sapeva produrre.

L’Alighieri portò il tutto ad un superiore livello, componendo un’opera della quale non è dato conoscere l’eguale neppure oggi.

Manzoni, infine, uomo d’arte ma anche patriota fervente, comprese prima e meglio degli altri quanto stiamo cercando di spiegare anche da qui: non vi è popolo senza parlata comune. Il suo romanzo – uno dei più belli di sempre, anche per la storia che racconta, e pensare che gli inglesi portano sul palmo della mano certe pallosissime vicende di Walter Scott – è in qualche modo l’epopea della Nazione che diventa finalmente stato, di cui lo scrittore milanese fu poi a lungo, e giustamente, senatore.

L’italiano, già: e pensare che lo bistrattiamo così tanto! Pensate, amici del Casello, a quanti anglismi idioti utilizziamo nella vita di tutti i giorni. Basta dare un’occhiata alla rubrica “Difendiamo l’italiano”, qui, sul nostro blog (blog, purtroppo: anglismo anche questo)…

150 ANNI DI STATO ITALIANO: IL PRIMO FUORICLASSE E' LA NAZIONE ITALIANA

Iniziamo, amici del Casello, la rassegna dedicata ai protagonisti dei 150 anni dell’unità d’Italia. Un’unità politica che ha sancito un’unità nazionale esistente già da 2.500 anni, perché – come ho sentito giustamente dire da Edgardo Sogno, un grande, grandissimo italiano, e come tale coperto (iniquamente) di fango dai c.d. “progressisti” dell’epoca, i peggiori anti italiani di sempre, per un presunto, molto presunto complotto golpista – lo stato italiano esiste dal 1861, ma la Nazione italiana (o italica) è una Nazione antichissima, risalente ai tempi dei Romani. E qui giova sottolineare – spero non sfugga a nessuno – la differenza tra “stato” (entità amministrativa) e “Nazione” (insieme di caratteristiche che uniscono una comunità radicata su un certo territorio).

Ed è proprio questo il primo fuoriclasse di questo nostro “Bignami” dell’Italia unita: la nostra gente, il nostro territorio, la nostra cultura, la nostra civiltà. Che ha 2.500 anni di storia, ed è una delle più antiche fra quelle arrivate – bene o male, a volte molto più male che bene – fino ai giorni nostri. Una civiltà che mangiava con le posate quando certi “professori” dell’economia mondiale o certi censori dei nostri comportamenti si grattavano la testa con la forchetta o sbranavano la carne cruda.

Oggi di quest’appartenenza alla casa comune italiana si sta perdendo il significato, e si preferisce guardare (o guardonare) nella casa sì, ma quella del “Grande Fratello”. Tranquilli: non siamo degeneri soltanto noi. Il fatto è che una volta le mode le imponevamo (oggi accade per pochi campi), oggi le subiamo.

Ma un po’ di fronte alta e di sano orgoglio nazionale non guasterebbe. Tra l’altro, noi – a differenza di altri – ne abbiamo motivo.