AMT: ...e trovare soluzioni intelligenti?

Due riflessioni sulla vicenda AMT, che a Genova sta creando disagi e discussioni da giorni, generando una eco che va ben al di fuori dei confini liguri, risonando ormai in tutte le edizioni dei telegiornali.
La prima è che i servizi pubblici, in quanto pubblici, devono mantenere una regia pubblica. Noi del “Casello” siamo sicuramente liberali (ma nel senso migliore) e un po' reazionari, ma su questo non possiamo transigere: acqua pubblica, trasporti pubblici, e via discorrendo.
Tanto più che la vicenda AMT è una privatizzazione da operetta, non dissimile a quella azzardata a suo tempo dalla giunta Pericu. Servono soldi, non soci, per l'incapacità di trovare soluzioni tecniche e politiche adeguate.
E qui andiamo alla seconda riflessione: riguarda l'incompetenza di chi gestisce e ha gestito il trasporto pubblico genovese da... sempre. Eppure Genova possiede fiori di esperti in materia: ma no, la presunzione di sapere e di essere capaci da soli...
Un invito, a tutti: andatevi a rileggere il programma di “Gente Comune”, nella parte riservata ai trasporti. C'era scritto tutto, e bene.
Essere tra quelli che “lo avevano detto” non cambia nulla, e semmai aumenta i rimpianti. Ma per lo meno non rende complici dello scempio al quale stiamo assistendo, che alla fine ha un solo titolo: i genovesi si vogliono male, e continuano a votare sempre gli stessi. I carnefici.

IL CHIANTI DEL TERZO MILLENNIO? LAMOLE!

L’offerta enologica nazionale è talmente ricca e qualitativa da lasciare sbalordito chi si affacci per la prima volta, e con la dovuta curiosità, al pianeta del vino italiano. Non c’è oggi regione, ma direi territorio - giacchè tanti ne possediamo, noi, universo dei mille campanili – che non sfoggi un campione da tutti riconosciuto come “quello buono”.
Ricordo, saranno passati quasi quarant’anni, durante una trasmissione televisiva (forse un arrivo del Giro d’Italia) un signore vestito di scuro, con gilet e cappello, passare di bicchiere in bicchiere con una bottiglia misteriosa e dire ad ognuno: “Malvasia!”, come a spiegare, a dare senso e significato, a voler intendere: Malvasia, mica bau bau micio micio.
Oggi lo sfumare delle distanze rende familiari nomi astrusi solo vent’anni fa: Aglianico, Taurasi, Primitivo, Negramaro, Cannonau… i nuovi campioni che portano nuovo lustro ai nobili di sempre: i Piemontesi, i Toscani, i Triveneti…
Tra questi ultimi, la strada del nuovo – ma non il nuovo per il nuovo: semplicemente il nuovo per l’attuale, per l’aggiornato – porta a rendere più ricca, più compiuta, più autentica, più tradizionale la fatica quotidiana di dare compiutezza al proprio prodotto. Ci colpisce, e non è mai stato un caso, quanto fatto a Lamole e che sempre apprezziamo durante le incursioni a Terroir Vini, la principale rassegna enologica ligure, che si tiene da anni verso la metà di giugno.
Lamole di Lamole, per quanto ci riguarda, rappresenta una felice sintesi tra lo spirito giovanile, l’afflato imprenditoriale e il rispetto delle radici. Convinti – qui al “Casello”, un po’ reazionari (e ce lo diciamo anche da soli) – che niente è più attuale di ciò che si conosce e nulla è più innovativo di ciò che parte dalla Patria (che per Luigi Veronelli è “ciò che si conosce e si capisce”), gustiamo i vini di Lamole di Lamole consapevoli che quanto è accompagnato dalle parole sagge ed intelligenti di Andrea Daldin, che incontriamo ormai da diversi anni a Genova, a Terroir Vini - come le didascalie sotto le illustrazioni – è proprio così, e lo si legge/ascolta/vede/ percepisce/respira/gusta nel bicchiere.
Non vogliamo qui parlare di austerità, corpo, stoffa, tannini, acidità, persistenza: pensiamo il meglio e la sua combinazione con i nostri gusti è un fidanzamento principesco. Come con l’olio (che – si chiede Andrea – se fatto bene dovrebbe costare così tanto che quello che si trova al supermercato come può mai essere anche solo “olio”?), con il vino di Lamole di Lamole – terra del giaggiolo, e quindi del fresco e intraprendente fiore chiantigiano – la piacevolezza sta anzitutto nell’esserci e nel tornare. Nell'accoglienza, nell’amore per il proprio lavoro pe per la terra. Sono già buoni motivi. Anzi, i migliori.