QUALCOSA CHE NON HO LETTO SULLA TRAGEDIA DEL PONTE MORANDI

Dopo aver mantenuto un intenzionale silenzio, ad un mese e mezzo ormai dal disastro del ponte Morandi, anche il Casellante avverte la necessità di riflettere su quanto accaduto, e - trattandosi di trasporti - con la cognizione di causa che gli pertiene.
Osservato, letto, interpretato, meditato, una cosa salta agli occhi, una cosa non banale: nessuno - non uno - che abbia inteso specificare "quale" traffico sia così drasticamente cambiato in questi cinquant'anni da stressare la struttura del ponte fino a prostrarlo in questa tragedia.
Difficile che sia una casualità: che nessuno, in modo chiaro e netto, abbia spiegato che non è tanto il traffico privato familiare - le macchine! - ad aver conosciuto un incremento inimmaginabile cinquant'anni fa, quanto il traffico merci su strada, induce a pensare male.
Fa supporre che quello che da sempre sosteniamo (su queste e su altre tribune) è inequivocabilmente vero, senza remissione. Che esiste un partito trasversale dell'asfalto, della nafta e del pneumatico che condiziona governi e informazione e che l'unico manovratore che non va disturbato è l'autotrasportatore. Tutti, a cominciare da chi se ne capisce, hanno il sacro terrore di questo potere nemmeno troppo occulto, che esprime ministri e politiche, che svuota gli scali merci ferroviari e boicotta il cabotaggio e la navigazione interna. "Ricordiamoci", diceva poche settimane fa un esperto amico del Casellante, "che la nostra economia dipende dall'autotrasporto". Come se fosse un dato di fatto da accettare acriticamente; come se si potesse assomigliare al clima ("La vita dipende dall'acqua"). Come se in tutto questo non ci fosse una precisa regia che ha progressivamente impoverito il traffico merci per ferrovia – l'unico, vero concorrente - rendendolo di fatto inservibile se non per i grandi clienti, in grado di acquistare treni interi a cadenza regolare.
Il risultato? Autostrade intasate da mezzi pesanti, e non è un modo di dire. I (pochi) camion di fine anni sessanta erano piume se paragonati agli odierni autoarticolati, alcuni gravati di carichi contro natura, alla lunga insopportabili per le infrastrutture stradali delle quali sono semplici utenti (notare, anche in questo caso, la differenza con la ferrovia, che fino a pochi anni fa era costretta a fare il boia e l'impiccato). Con le associazioni di una categoria - già favorita in ogni possibile modo - sempre a piangere miseria e a richiedere provvidenze, sconti, potenziamento delle infrastrutture (a spese di altri).
I numeri sarebbero impietosi, se fossero ufficiali. Si racconta, ad esempio, che nel novanta per cento dei casi di incidente in autostrada – dalla gomma sgonfia al tamponamento, dall'incendio al cappottamento – sia protagonista almeno un mezzo pesante.
La politica, però, decide diversamente. E la saldatura che si è creata tra gestori autostradali e autotrasporto merci (chi avesse qualche dubbio dia un'occhiata su internet), condita da indulgenti parentele con altri poteri economici e finanziari crea un muro difficile da abbattere.
Oggi siamo a piangere quarantatre vittime e con una città già difficile da percorrere che rischia di impoverirsi perchè il “traffico” (su strada) potrebbe preferire altri approdi, costringendo poi anche le navi, e i rari treni rimasti... Quando qualcuno sosteneva queste battaglie, anche da queste colonne, ci prendevamo botte di visionari, di “scheggie impazzite”, di irresponsabili, di incompetenti.
Può darsi: al Casellante piace ricordare, però, che i professionisti hanno costruito il Titanic, e i dilettanti l'Arca di Noè.