MA QUANTE VOLTE ANDIAMO AL SUPERMERCATO, OGNI SABATO?

Non so se strapperà un sorriso oppure farà da grattugia agli zebedei, ma questa volta al “Casello” transita una storiella – breve – tesa a dimostrare la mancanza di fantasia di chi - con una scusa, epperciò in modo vile – cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità, per quanto piccole, e di quanto siano scadenti e penose certe arrampicate sugli specchi, e ancora di quanto il furbetto convinto di avere trovato la giusta motivazione trovi senza neanche troppo sbattimento chi lo sgama facilmente.

Che si dimostra magnanimo due volte: perchè lo lascia fare, e perchè non lo sputtana.

Da lungo tempo sosteniamo le battaglie e le raccolte del Banco Alimentare. Anche quest'anno, perciò, ci siamo schierati l'ultimo sabato di novembre all'ingresso di un supermercato del Levante per un turno da volontari alla “Colletta Alimentare”.

La scena è sempre quella: all'ingresso i volontari distribuiscono un sacchetto giallo e un volantino che descrive l'iniziativa e spiega quali generi acquistare, se si intende partecipare: legumi, scatolette, pomodori, olio, pasta, riso, biscotti, alimenti per bambini... All'uscita si paga la propria spesa, e si lascia qualcosa agli altri volontari che sistemano in scatole, dividendo il materiale per genere. Il tutto finalizzato a servire le centinaia, migliaia di organizzazioni che si appoggiano alla Fondazione Banco Alimentare procurando pasti caldi ai più bisognosi di assistenza: anziani, malati, senza dimora, bambini. E sulla trasparenza della questione, al Casello, siamo ragionevolmente tranquilli.

La cosa buffa è scoprire quale buon motivo ha la gente per non contribuire. Sarebbe giusto e persino accettabile sottrarsi dicendo: “Preferisco di no. Non credo a queste cose”, oppure: “Non ho denaro a sufficienza”. O anche, soltanto: “Non mi piacciono le questue, di qualsiasi natura”.

Invece, a parte la seconda delle motivazioni elencate (qualcuno che dice: “Quasi quasi divento vostro cliente”), nessuno ha il coraggio di dire la verità, e credendosi originale fa scoprire al mondo quanta gente fa più volte la spesa nella stessa giornata.

“Ho già fatto stamattina a quello su all'angolo” (là aveva sicuramente detto: “Farò più tardi, giù nel rettilineo”).

“Ho già partecipato a quello in fondo alla discesa” (uno dei pochi della zona in cui i volontari non coprono i turni).

“Guardi, oggi è la terza volta che vengo al supermercato” (Belin, ne hai tempo da perdere!).

“Son dovuta tornare perchè ho dimenticato l'olio” (Ma sei scema?? Manco avessi dimenticato l'acceleratore di particelle!).

“Sono di corsa, non riesco” (Magari, correndo, inciampi in una scatoletta simbolica).

“No, grazie” (Non ti stavamo facendo un favore, e non volevamo darti una pasticca).

“Lasci perdere, non è giornata” (Invece sì, è oggi, se ne fa una all'anno).

“Ho girato più supermercati oggi che...” (E chi sei, l'Agenzia delle Entrate o il fornitore dei sacchetti riciclabili?).

Più verso sera arriva quello che: “Meno male che siete ancora aperti, sennò...” (E allora sgancia una scatoletta!).

A latere ci sono quelli che sarebbero anche generosi, ma considerano la “non deperibilità” una questione di punti di vista. “Se il casco di banane viaggia per settimane dall'Africa Centrale fino ai banchi del supermercato, per giunta completando la maturazione” - pensano - “sicuramente un paio di serate in più male non gli farà”. Peccato che i NAS vedano la questione in un'ottica sottilmente diversa.

E per finire, i bizzarri. Quelli ai quali porgi il sacchetto giallo, ti ringraziano, ci mettono dentro la loro roba e se ne vanno, evitando di acquistarne uno alla cassa. Oppure quelli che ti fanno spiegare come funziona, ti tengono lì inchodato per cinque minuti e poi ti dicono: “Bene, complimenti!”, e se ne vanno senza darti niente.

C'è spazio per tutti. E l'umanità è varia. Un solo consiglio per il prossimo anno: lo sappiamo che ci siete già stati, al supermercato, anche quando entrate per primi alle otto del sabato mattina, perchè – come è giusto – al sabato ci si vive al supermercato. Fuori da questo, dentro a quell'altro. Beati voi, che ne avete il tempo e le risorse. Quindi, se la colletta non vi interessa e il Banco Alimentare svolge una missione che non condividete, ditelo così, semplicemente.

GIOVANNINO GUARESCHI, UN FUORICLASSE AL CASELLO.

Quando, con regolarità impressionante, Rete Quattro inizia a trasmettere la serie dei cinque film originali della saga del “Mondo Piccolo”, Don Camillo e Peppone tanto per capirci, significa che è Natale, o che si vuole andare sul sicuro. Oppure, come quest'anno, che è in corso un anniversario importante. Cinquant'anni dalla morte – e centodieci dalla nascita – di questo autentico fuoriclasse della letteratura che è stato Giovannino Guareschi.
Tanti lo conoscono soltanto di nome, oppure come sceneggiatore dei suddetti film, che il recensore televisivo definisce “qualunquisti”, addolcendo quello che vorrebbe essere un limite – e non lo è, evviva il qualunquismo, se è il buon senso che fa incontrare idee anche molto diverse – con zuccherini tipo “... però si ride di gusto”,
Una penna graffiante, immaginifica, capace di suggestionare cuore ed anima, e di parlare alle menti. Sinestetico nel suo descrivere, sembra farsi vessillifero – da scrittore – del proverbio “Anche l’occhio vuole la sua parte”. Ironico, mai banale, capace di essere cronista e narratore, dove il primo sta al turista come il secondo al viaggiatore.
E subito, dal cuore prima ancora che dal cervello, sale spontanea una domanda: ma qui al Casello siamo gli unici a ritenerlo il più grande autore italiano del ventesimo secolo?
Sì, perché la critica, le antologie scolastiche, professori e cattedratici, tromboni assortiti di un’Italia che non li ascolta e va dove la porta il cuore, non parlano di Guareschi come di un autore, come di letteratura, come di arte, ma ne trattano alla stregua di una macchietta, di un guitto, di un caratterista della penna. Ricordo il mio libro di antologia del ginnasio: lodi sperticate di autori illeggibili, stucchevoli nel loro italiano pedante, noiosi nelle loro storie tristi e intrise di ideologia, e un breve accenno su questo autentico fuoriclasse, considerato un ingenuo superficiale. Eppure, io sapevo (e so) leggere. A me, di quell’antologia, rimasero impresse solo le pagine da lui scritte. Insomma, la critica letteraria – la quale, come si sa, non utilizza parametri oggettivi e misurabili scientificamente, ma per lo più cavalca l’onda dell’ideologia di moda, che poi in Italia è sempre quella – ha sempre spacciato quello che le pareva come arte, negandone la dignità a chi non passava per i canali giusti.
Ricordo un episodio paradossale: a metà degli anni ottanta il cronista del “Giornale” di Montanelli Beppe Gualazzini – grande difensore della memoria del nostro campionissimo – dovette affrontare addirittura una pubblica tenzone con un critico di sinistra. Argomento? Guareschi. Vera arte, letteratura, oppure no? Non so se mi spiego: c’era anche chi aveva la faccia ed il tempo da perdere da dedicare alla negazione pubblica della dignità artistica del Giovanninno!
In compenso, erano sicuramente arte, secondo il trombonismo imperante, alcuni libri che fui costretto a digerire ai tempi del liceo. Sfido chiunque, CHIUNQUE, a dimostrarmi – ma con argomenti seri, veri, concreti – che Elio Vittorini (“Conversazione in Sicilia”) o Giorgio Bassani (“L’airone”), tanto per citare due di quelli che più di altri mi procurarono profonde e mai del tutto rimarginate incrinature ai testicoli, erano arte da contrapporre alla “non-arte” superficiale e ingenua di Guareschi. Possedevano l’italiano meglio di Guareschi? Questa è buona… Erano più piacevoli da leggere? Questa è ancora migliore… Raccontavano storie edificanti? Ma per piacere! Hanno venduto più libri? Ahi ahi ahi, quarta risposa sbagliata di fila…
Eppure, andando più a fondo, due sono i motivi per i quali Guareschi a questa gentaglia non è mai andato a genio. Il primo, ed il più evidente, era il suo irriducibile impegno anticomunista. Fino agli anni ottanta (ma per molti ancora oggi), secondo un teorema tipicamente berlingueriano, essere anticomunisti significava essere oggettivamente fascisti. Cioè, il nemico. Poco importava che tra rosso e nero esistessero decine di sfumature. Di conseguenza, poco importava che Guareschi avesse subito la deportazione in Germania. Era e restava un nemico. Il nemico, a differenza dell’avversario, non si rispetta: si combatte con ogni mezzo, anche da morto. Vedi il titolo dell' “Unità” al momento della dipartita del nostro: “E' morto l'autore che non è mai nato”. Così. Senza neppure una briciola di rispetto per colui che, invece, aveva reso masticabile la figura del comunista a chi comunista non era.
Il secondo motivo era più sottile. Nei suoi racconti sul “Mondo Piccolo”, Guareschi metteva a raffronto due universi: la Chiesa di Gesù, e la “chiesa” del PCI. Almeno, questa è sempre stata la didascalia ufficiale. Due mondi diversi e contrapposti. Ma era davvero così? Al Casello propendiamo per il no.
Quello che procurava un enorme fastidio a sinistra era che, mentre sul piano umano la contesa si svolgeva tra due galantuomini di pari livello, che se le davano di santa ragione e con risultati alterni, l’ultima istanza, quella che fa da sfondo a tutte le vicende umane, il tribunale ultimo ma anche l’approdo per gli appartenenti all’una e all’altra parte era la parrocchia, ed ancora di più il suo Crocifisso, quello con il quale Don Camillo parlava, al quali spetta e spettava fare la sintesi finale. Così tanto aveva la meglio, che in politica ognuno tirava dritto per la sua strada, non lesinando colpi, ma alla fine in chiesa ci andavano tutti, comunisti compresi. Gli uomini pareggiavano la loro partita, gli esponenti delle rispettive chiese (com’è del resto giusto, il trascendente è superiore al terreno), no. E questo, a chi in quegli anni contrapponeva il comunismo alla religione oppio dei popoli, ai seguaci di Baffone che promuoveva l’ateismo di stato, non poteva andare giù. C’era il rischio che la purezza della dottrina s’incrinasse, per colpa di quel pericoloso sovversivo di Guareschi. Che il popolo, la gente comune, quella capace, con il buon senso - che poi, se andiamo a vedere, è la versione popolare del qualunquismo - di mediare tra cattolicesimo e qualsiasi altra idea, compreso il comunismo, di sintetizzare sul piano della singola vicenda umana ed individuale la Croce con la falce ed il martello, la dimensione politica e il sentimento religioso, cercasse davvero una soluzione che permettesse a tutti di mantenere affetti e convinzioni senza sentirsi fuori posto. Non doveva e non poteva esserci stima ed affetto, nella realtà, tra i Don Camillo ed i Peppone. Non c’era conciliazione possibile con nessuna chiesa, con nessuna religione, per chi uccideva vilmente e a sangue freddo don Umberto Pessina e tanti altri sacerdoti, e - cosa altrettanto grave - ne nascondeva alla doverosa giustizia gli assassini.
Ora, per fortuna, il clima sembra leggermente diverso. Si possono finalmente dire cose che tanti pensano da tempo ma che un’insana rincorsa alla purezza antifascista (e anti-anticomunista) ha inibito per oltre mezzo secolo. Oggi si può gridare dai tetti che Giovannino Guareschi è un fuoriclasse della letteratura italiana, la stella più luminosa del ventesimo secolo, e non è utopia chiedere che ai nostri ragazzi venga insegnato con l’attenzione che merita.

LA GRANDE GUERRA, CENTO ANNI DOPO

Da piccolo, il Casellante sentiva parlare con orgoglio della Prima Guerra Mondiale. Erano ancora in vita tanti di coloro che vi presero parte, e molti erano i "Cavalieri di Vittorio Veneto" che si potevano incontrare. Una gierra "vinta", per un bambino, era pur sempre un motivo di fierezza.
Gli anni passano, e le riflessioni assumono sempre di più - peccato, è l'età che avanza - contorni più saggi e sfumati.
Non vogliamo qui trattare in modo organico alcun argomento: storico, politico, sociale, umano, persino letterario, visto che all'ultimo atto delle guerre risorgimentali parteciparono fior di cervelli e di letterati.
Ci piace soltanto ricordare quanto i nostri avi fecero, senza in pratica ancora capirsi tra di loro, visto che il dialetto era di fatto l'unica lingua parlata dal popolo. Un senso del dovere incompreso li mosse a guardare i nostri confini e a compiere l'opera di unificazione, solo perchè così si doveva. Non si valutava la congruità, ma solo il fatto che la Patria - nessuno osava chiamarla in modo diverso - lo esigeva.
Così onore a loro: un pensiero per chi vide l'ultima alba di quel drammatico conflitto, e anche di più per chi non ci riuscì. E' anche per il loro sacrificio che oggi possiamo raccontare in libertà quella terribile pagina.