Chi cammina le vigne, come amava dire Luigi Veronelli, e chi
frequenta le cantine, ben sa che “i francesi con uve d’argento fanno vini d’oro,
mentre gli italiani con uve d’oro fanno vini d’argento”. O, almeno, un tempo si
soleva dire così.
Gli uvaggi internazionali tanto cari ai cugini d’oltralpe,
pur eccezionali e portati alle più alte vette da secoli di epopea
vinificatoria, sono però anche un po’ sempre quelli. E a noi, che amiamo
cambiare anche solo per il gusto di sperimentare, un vago sentimento di noia
talvolta ci prende.
Sui colli di casa nostra, al contrario, non c’è in sostanza
terra che non presenti una sua propria varietà di uva. E se tante di loro si
ripetono multiformi negli esiti qua e là per la penisola – basta pensare al Sangiovese
che si esprime in un modo in Romagna e in tutt’altro e opposto in Toscana, e
poi è capace di scendere lungo l’Adriatico fino alla Puglia – alcune sono
invece lì, e solo lì.
Come certe bacche piemontesi.
Mai sentito parlare del Ruchè? Male, malissimo! Come tante
altre varietà piemontesi, l’uva ruchè era in rischio di estinzione, stritolata
dai giganti dell’astesano, Barbera su tutti.
Ma, come spesso accade nella storia del vino, fu l’iniziativa
del parroco di Castagnole Monferrato a preservare questo vitigno, a rilanciarlo
e a farne, oggi, un oggetto di culto per chi se intende.
Non è un vino facile, il Ruchè, oggi DOCG: non deve meditare
per anni, ma si esprime compiuto e robusto fin da giovane. Al naso è primavera,
anzi: maggio, con le rose che allargano il petalo fin nel colore, che ha
sfumature anche fucsia e indaco. Il sorso è invece sferzante, carico,
perdurante, e si riassume quasi dolce nel colpo d’ala finale.
Un rosso di corpo, e infatti va di gradazione elevata o
proprio non va, e però gentile e quasi sfumato. Le cantine del luogo, a
cominciare da quella sociale di Castagnole, ne porgono e ne tramandano
delicatezza e forza ad un tempo.
Il Casellante ancora :mai sentito parlare del Ruchè?
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