Quando,
con regolarità impressionante, Rete Quattro inizia a trasmettere la
serie dei cinque film originali della saga del “Mondo Piccolo”,
Don Camillo e Peppone tanto per capirci, significa che è Natale, o
che si vuole andare sul sicuro. Oppure, come quest'anno, che è in
corso un anniversario importante. Cinquant'anni dalla morte – e
centodieci dalla nascita – di questo autentico fuoriclasse della
letteratura che è stato Giovannino Guareschi.
Tanti
lo conoscono soltanto di nome, oppure come sceneggiatore dei suddetti
film, che il recensore televisivo definisce “qualunquisti”,
addolcendo quello che vorrebbe essere un limite – e non lo è,
evviva il qualunquismo, se è il buon senso che fa incontrare idee
anche molto diverse – con zuccherini tipo “... però si ride di
gusto”,
Una
penna graffiante, immaginifica, capace di suggestionare cuore ed
anima, e di parlare alle menti. Sinestetico nel suo descrivere,
sembra farsi vessillifero – da scrittore – del proverbio “Anche
l’occhio vuole la sua parte”. Ironico, mai banale, capace di
essere cronista e narratore, dove il primo sta al turista come il
secondo al viaggiatore.
E
subito, dal cuore prima ancora che dal cervello, sale spontanea una
domanda: ma qui al Casello siamo gli unici a ritenerlo il più grande
autore italiano del ventesimo secolo?
Sì,
perché la critica, le antologie scolastiche, professori e
cattedratici, tromboni assortiti di un’Italia che non li ascolta e
va dove la porta il cuore, non parlano di Guareschi come di un
autore, come di letteratura, come di arte, ma ne trattano alla
stregua di una macchietta, di un guitto, di un caratterista della
penna. Ricordo il mio libro di antologia del ginnasio: lodi
sperticate di autori illeggibili, stucchevoli nel loro italiano
pedante, noiosi nelle loro storie tristi e intrise di ideologia, e un
breve accenno su questo autentico fuoriclasse, considerato un ingenuo
superficiale. Eppure, io sapevo (e so) leggere. A me, di
quell’antologia, rimasero impresse solo le pagine da lui scritte.
Insomma, la critica letteraria – la quale, come si sa, non utilizza
parametri oggettivi e misurabili scientificamente, ma per lo più
cavalca l’onda dell’ideologia di moda, che poi in Italia è
sempre quella – ha sempre spacciato quello che le pareva come arte,
negandone la dignità a chi non passava per i canali giusti.
Ricordo
un episodio paradossale: a metà degli anni ottanta il cronista del
“Giornale” di Montanelli Beppe Gualazzini – grande difensore
della memoria del nostro campionissimo – dovette affrontare
addirittura una pubblica tenzone con un critico di sinistra.
Argomento? Guareschi. Vera arte, letteratura, oppure no? Non so se mi
spiego: c’era anche chi aveva la faccia ed il tempo da perdere da
dedicare alla negazione pubblica della dignità artistica del
Giovanninno!
In
compenso, erano sicuramente arte, secondo il trombonismo imperante,
alcuni libri che fui costretto a digerire ai tempi del liceo. Sfido
chiunque, CHIUNQUE, a dimostrarmi – ma con argomenti seri, veri,
concreti – che Elio Vittorini (“Conversazione in Sicilia”) o
Giorgio Bassani (“L’airone”), tanto per citare due di quelli
che più di altri mi procurarono profonde e mai del tutto rimarginate
incrinature ai testicoli, erano arte da contrapporre alla “non-arte”
superficiale e ingenua di Guareschi. Possedevano l’italiano meglio
di Guareschi? Questa è buona… Erano più piacevoli da leggere?
Questa è ancora migliore… Raccontavano storie edificanti? Ma per
piacere! Hanno venduto più libri? Ahi ahi ahi, quarta risposa
sbagliata di fila…
Eppure,
andando più a fondo, due sono i motivi per i quali Guareschi a
questa gentaglia non è mai andato a genio. Il primo, ed il più
evidente, era il suo irriducibile impegno anticomunista. Fino agli
anni ottanta (ma per molti ancora oggi), secondo un teorema
tipicamente berlingueriano, essere anticomunisti significava essere
oggettivamente fascisti. Cioè, il nemico. Poco importava che tra
rosso e nero esistessero decine di sfumature. Di conseguenza, poco
importava che Guareschi avesse subito la deportazione in Germania.
Era e restava un nemico. Il nemico, a differenza dell’avversario,
non si rispetta: si combatte con ogni mezzo, anche da morto. Vedi il
titolo dell' “Unità” al momento della dipartita del nostro: “E'
morto l'autore che non è mai nato”. Così. Senza neppure una
briciola di rispetto per colui che, invece, aveva reso masticabile la
figura del comunista a chi comunista non era.
Il
secondo motivo era più sottile. Nei suoi racconti sul “Mondo
Piccolo”, Guareschi metteva a raffronto due universi: la Chiesa di
Gesù, e la “chiesa” del PCI. Almeno, questa è sempre stata la
didascalia ufficiale. Due mondi diversi e contrapposti. Ma era
davvero così? Al Casello propendiamo per il no.
Quello
che procurava un enorme fastidio a sinistra era che, mentre sul piano
umano la contesa si svolgeva tra due galantuomini di pari livello,
che se le davano di santa ragione e con risultati alterni, l’ultima
istanza, quella che fa da sfondo a tutte le vicende umane, il
tribunale ultimo ma anche l’approdo per gli appartenenti all’una
e all’altra parte era la parrocchia, ed ancora di più il suo
Crocifisso, quello con il quale Don Camillo parlava, al quali spetta
e spettava fare la sintesi finale. Così tanto aveva la meglio, che
in politica ognuno tirava dritto per la sua strada, non lesinando
colpi, ma alla fine in chiesa ci andavano tutti, comunisti compresi.
Gli uomini pareggiavano la loro partita, gli esponenti delle
rispettive chiese (com’è del resto giusto, il trascendente è
superiore al terreno), no. E questo, a chi in quegli anni
contrapponeva il comunismo alla religione oppio dei popoli, ai
seguaci di Baffone che promuoveva l’ateismo di stato, non poteva
andare giù. C’era il rischio che la purezza della dottrina
s’incrinasse, per colpa di quel pericoloso sovversivo di Guareschi.
Che il popolo, la gente comune, quella capace, con il buon senso -
che poi, se andiamo a vedere, è la versione popolare del
qualunquismo - di mediare tra cattolicesimo e qualsiasi altra idea,
compreso il comunismo, di sintetizzare sul piano della singola
vicenda umana ed individuale la Croce con la falce ed il martello, la
dimensione politica e il sentimento religioso, cercasse davvero una
soluzione che permettesse a tutti di mantenere affetti e convinzioni
senza sentirsi fuori posto. Non doveva e non poteva esserci stima ed
affetto, nella realtà, tra i Don Camillo ed i Peppone. Non c’era
conciliazione possibile con nessuna chiesa, con nessuna religione,
per chi uccideva vilmente e a sangue freddo don Umberto Pessina e
tanti altri sacerdoti, e - cosa altrettanto grave - ne nascondeva
alla doverosa giustizia gli assassini.
Ora,
per fortuna, il clima sembra leggermente diverso. Si possono
finalmente dire cose che tanti pensano da tempo ma che un’insana
rincorsa alla purezza antifascista (e anti-anticomunista) ha inibito
per oltre mezzo secolo. Oggi si può gridare dai tetti che Giovannino
Guareschi è un fuoriclasse della letteratura italiana, la stella più
luminosa del ventesimo secolo, e non è utopia chiedere che ai nostri
ragazzi venga insegnato con l’attenzione che merita.
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