Sempre con l'intento di esorcizzare i
peggiori demoni che infestano le dinamiche organizzative, oggi ci
occupiamo di una famiglia di termini che sta godendo probabilmente
della fase di maggior fortuna da quando – oltre duemila anni fa –
è apparsa nei nostri vocabolari: quella del verbo “condividere”
e i suoi derivati “condivisione”, condiviso”, eccetera.
Come suggerisce l'etimologia,
“condividere” significa letteralmente “dividere con”, ossia
spartire, mettere a disposizione il nostro e poter usufruire
dell'altrui.
Nel millennio dei social, “condividere”
ha assunto una tonalità ulteriore: pubblicare un contenuto a
beneficio di terzi, il cui numero tende ad infinito. In alcuni casi
si tratta semplicemente di rendere noto il proprio attimo, a parole
ma più spesso con immagini, mentre in altri si tratta di richiamare
l'attenzione su un contenuto proprio o altrui. E' interessante notare
come questa pratica abbia poco di “condiviso”, trattandosi in
sostanza di un atto unilaterale con il quale si chiama a raccolta il
pubblico su un contenuto che si ritiene meritevole di conoscenza
diffusa. Non si tratta, in assoluto, di una pratica commendevole: se
così fosse queste righe che gli amici del “Casello” stanno
leggendo sarebbero in profonda contraddizione con sé stesse. E' però
una constatazione, una presa d'atto su come vadano le cose.
Dove però si tende a fare scempio del
significato più autentico della condivisione è nelle organizzazioni
strutturate e gerarchizzate.
Qui il più delle volte – ma verrebbe
da dire: sempre – chi comanda chiede ai sottoposti di “condividere”
un atteggiamento, un'idea, una strategia, e non certo nel senso di
“spartire” il proprio e l'altrui. Il senso invece è: voglio che
tu sia d'accordo che su questo punto si debba fare così.
E' assai diffusa la pratica di
“condividere” con i propri collaboratori una serie di concetti
calati dall'alto, che il ricevente deve semplicemente fare propri.
“Condividerli”, secondo il senso che se ne dà oggi in questo
genere di dinamiche.
L'aspetto bizzarro è che alla fine di
questo processo di imposizione di visioni e di strategie (non poi
dissimile dalla condivisione “social”) chi detiene ruoli apicali
sia effettivamente convinto di aver “condiviso” il cammino con i
propri sottoposti, semplicemente per averli messi a parte dei propri
programmi (“Volevo condividere con te la necessità che tu
faccia...”). Il che è l'esatto opposto della vera “condivisione”,
che – come rileva qualcuno – non si riferisce soltanto alla
propria “roba”, ma significa spartire con gli altri anche quello
che “è degli altri”.
Esistono studi ad ogni livello che
dimostrano come la vera “condivisione” - nella quale si può
ascoltare l'eco della congiunzione “con”, ma anche del sostantivo
“visione” - giovi profondamente a tutte le realtà organizzate,
dalla famiglia alla scuola, dall'associazionismo alla politica, e
fino al mondo del lavoro. Permette a ciascuno che se la senta di
mettersi in gioco, di assumersi reponsabilità, di collaborare per
ottenere risultati migliori. “Condivisione” significa, in ultima
istanza, dare e ricevere fiducia, investendo nelle persone e nelle
relazioni.
Ma questo salto di qualità culturale
presuppone la presenza al timone di figure che abbiano autorevolezza
e non semplice autorità, e che senza striduli isterismi siano
anzitutto in grado di ascoltare e non sentano insidiato il loro
ruolo, che altrimenti si riduce semplicemente al grado che ricoprono.
Il contrario di “condivisione”?
Eccolo: “Chiacchiere e distintivo”.
1 commento:
"Vorrei condividere con te..." è una delle frasi più pericolose che si possano ascoltare in azienda.
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