Ci provo da cinquantotto anni, ma non ci riesco. Presumo che la colpa
sia anche mia, perché della cosiddetta e così attuale "resilienza" non
disprezzo solo il termine, ma almeno altrettanto il concetto sotteso. Ma
che sia così, oppure no, è l'ora di prendere posizione: a me la
stagione autunnal-invernale non piace.
È un male necessario, che -
non potendo intervenire in nessun modo, escludendo ripetuti e costosi
trasferimenti ai Caraibi - sono costretto a digerire ogni anno,
sbuffando lungo le ore che mi separano dai primi tepori primaverili, ma
non riuscirò mai ad apprezzarla.
Non trovo paragonabili le lunghe
giornate in cui puoi farti un bagno in mare a ridosso di cena, o
lavorare in giardino o nell'orto tornando a casa dal lavoro a quelle in
cui è il buio ad accomunare l'uscita e il rientro. Mi intristisce e mi
maldispone quando il "mio" agosto va a spegnersi per lasciare spazio
agli orridi mesi con la desinenza "-bre", la parabola annuale
dell'invecchiamento, in cui le om-bre - stessa desinenza. Coincidenze?
Io non credo - si allungano fino a liquefarsi sul marciapiede o sul
prato.
Non mi piace, e mi faccio apostolo del verbo
primaveril-estivo. Non mi piace, e non può certo riuscire a farmela
andare a genio quel profluvio di vantaggi che amici e conoscenti - anche
questa volta, persino questa volta - andranno ad enumerare postulando
la pari dignità, quando non addirittura la superiorità, delle giornate
più fredde e più corte.
Nella disputa dialettica entreranno argomenti
tipo: "Eh, ma vuoi mettere il Natale?", oppure: "Ma le caldarroste, e
la neve, che suggestioni!". O, più ecumenicamente, la considerazione
che, in fondo, ogni stagione è bella a modo suo, e basta saperla
apprezzare.
Che assomiglia tanto a quelle secondo cui i diversi totalitarismi - così non facciamo torti - hanno combinato anche cose buone.
Come
ogni anno, allo scattare dell'ora solare, smarcherò le settimane - di
solito ventitré - che mi separano dal ritorno dell'ora legale, che
aggiunge una non banale ora di sole alle giornate che da sempre sono
definite, non certo a caso, "la bella stagione". Contrapposta a quella
brutta, che mai come in questi tempi di sciagura e malattia sembra voler
inghiottire nella sua oscurità gioie e sorrisi. E, naturalmente, nella
speranza che non vada in porto lo sciagurato progetto di eliminarla,
l'ora legale, cosa che finirebbe per ridare fiato alle mie pulsioni
sovraniste.
Ai Santi, inevitabilmente, penserò che come ogni anno le
belle donne di ogni età spariranno dalla circolazione, imprigionate dal
malvagio "Generale Inverno", per poi riapparire come per magia attorno
al primo maggio, leggiadre e sorridenti.
A gennaio, goffamente
intabarrato in tute in morbida lana di vetro, maledicendo l'ultimo
gancio degli scarponi da sci che - complici le dita bluastre per il
rigor mortis - non vuole acchiappare la linguetta che solo un
inguaribile ottimista può definire "corrispondente", rimpiangerò il
panzone in braghetta ed infradito che ha capito tutto, perché basta un
asciugamano per fare estate, e il mare è per tutte le tasche e invece la
neve no.
Patisco in modo particolare gli anni come questo, in cui
già da settembre acqua e freddo ti avvertono che stop!, Niente più
maniche corte. Perché ogni bagno in mare che si addentra in ottobre è un
polder bonificato alle paludi malariche dell'inverno.
Ci provo da
cinquantotto anni, ma non ci riesco. Credo sia arrivata l'ora della
consapevolezza e, quindi, della resa. Tanto, quando sul calendario
scatta marzo, sarà già di nuovo estate, e in fondo, e a ben pensarci,
non manca tanto.
AUTUNNO E INVERNO, SPARITE!
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1 commento:
Mi spiace che tu la prenda così male. Il riposo delle piante e della terra sarebbero impossibili se fosse sempre estate.
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