Uno degli effetti peggiori di questo
momentaccio storico è la sensazione di inutilità che ti acchiappa
alla gola, costretti come siamo a pochi e ripetitivi movimenti –
lavoro, negozio di alimentari, una botta di vita in farmacia – e
senza la possibilità di dare effettivamente una mano, considerando
divieti ma anche effettive abilità.
Mi sono chiesto: cosa posso fare di
utile per gli altri, in questa assurda stagione della nostra vita,
attingendo alle (poche) cose che so fare? So scrivere, so parlare, so
animare, so fare formazione e intrattenimento... Siccome il
distanziamento sociale obbligatorio rende indispensabili modalità di
incontro del tutto diverse, nella consapevolezza di quanto sia più
che mai necessario "trovarsi", anche senza contatto fisico,
e dal momento che lo fa la scuola, con la didattica a distanza; lo fa
il mondo del lavoro, con le formule più diverse volte a far sì che
l'operatività scorra anche "da remoto"; lo sperimenta
qualsiasi realtà organizzata - dalla famiglia alla parrocchia - che
cerchi dare continuità alle proprie relazioni; e poiché ho una
lunga esperienza – associativa, politica, lavorativa –
nell'organizzazione e nella gestione professionale di eventi e nella
partecipazione a incontri e conferenze di qualsiasi natura, ho messo
insieme un po' di riflessioni sulla “riunione”: cos’è, come si
fa, come non si fa…
ENTRIAMO IN ARGOMENTO.
Nel mondo del Non-profit si sente
spesso dire che le associazioni muoiono di noia, ed è vero: viene
meno lo spirito associativo, ci si dimentica dell’afflato che ha
unito gli associati, si ripetono all’infinito i medesimi
comportamenti e si riduce a meccanica ciò che ai primordi era mosso
da passione. Nelle aziende e negli organismi pubblici il fenomeno si
avverte meno solo perché la finalità è diversa, ma non lo sono i
meccanismi partecipativi, che perdono mordente anche in funzione
della capacità di coinvolgimento di chi “detta i tempi”.
In natura esistono tanti tipi di
riunione: organizzativa, tecnica, informativa, assembleare, e si
potrebbe andare avanti ancora per un bel po'. Limitiamoci a
considerare due possibili specie: quella monocentrica – un
“centro”, che può essere un capo o una figura specialistica che
ha da illustrare qualcosa – e quella policentrica – una
“comunità” di pari, con un coordinatore. Le indicazioni che
seguono, in linea di massima, si adattano ad entrambe le tipologie.
Anzitutto, una riunione deve essere
importante. Deve “contare qualcosa”. Deve avere un senso, non
essere un appuntamento ricorrente, anche laddove – per assurdo –
lo sia davvero, perché previsto da qualche regola. Non ci si deve
“vedere” (o “sentire”) per forza, perché è un momento fisso
e storico, perché “si è sempre fatto così”, perché è
routine, o perché è importante “guardarsi in faccia”, anche a
distanza, o perchè nella crapa del responsabile esiste la fregola di
vedere i collaboratori attorno ad un tavolo. Va ricordato che chi
organizza una riunione e convoca altre persone si assume la
responsabilità di farle muovere o connettere, disponendo di tempi e
risorse propri ed altrui. Anche qualora sia previsto – tanto per
fare un esempio – che ci si veda/senta ogni martedì mattina, se
capitasse di non avere argomenti da discutere, nulla vieta di saltare
la riunione e di sospenderla per un giro.
Se l'incontro è importante, non può
avere un menu prefissato, o essere recitato a soggetto, improvvisando
la trama. Deve avere uno o più obiettivi, che per essere considerati
davvero tali devono possedere alcune caratteristiche imprescindibili,
tra le quali spiccano la concretezza e la misurabilità.
PREPARARSI E PREPARARE.
Da quanto sopra emerge la necessità di
prepararsi adeguatamente. Vale per tutti i partecipanti, ma
soprattutto per chi organizza. Teniamo conto che, di fatto, la
riunione inizia al momento della convocazione, la quale deve essere
quindi ben curata. Il “no alla sciatteria” – un ritornello di
queste note formative – parte da un certo rispetto della forma fin
dal momento dell’ideazione.
Cos’è quindi la convocazione? E’
quella comunicazione che, fatta pervenire con un congruo anticipo –
l’ideale è non meno di una settimana, con un paio di rinfreschi di
memoria - e con modalità “serie” - no alla telefonata e ancor
meno al messaggio sul telefonino -, permette a tutti di sapere che ci
si vedrà o ci si sentirà il giorno X (magari utilizzando una
formula del tipo: “Ricordiamo l'appuntamento di mercoledì
mattina...”, in caso di impegni ricorrenti e stabili), per parlare
di… Di? Calma, prima i tempi! Anzitutto va indicato un orario di
inizio e uno di fine, che devono essere rispettati. No assoluto alle
riunioni ad oltranza, purtroppo assai diffuse in alcuni ambiti (in
particolare nel sociale e nel politico). Sono la miglior pubblicità
…per l’assenza della volta successiva!
TENIAMO IN ORDINE. DEL GIORNO.
Poi, l’ordine del giorno. Pochi
punti, ma chiari, e accompagnati dal materiale preparatorio. Si può
trattare di presentazioni o documenti, ma è importante che siano
diffusi in precedenza – ne guadagneranno la partecipazione, la
qualità dei contributi, i tempi – e che su di essi verta il
dibattito. E’ valido anche chiedere ai futuri partecipanti se
abbiano punti da inserire all’ordine del giorno. Vivamente
sconsigliata invece la voce “varie ed eventuali”, resa
tristemente celebre dalle assemblee condominiali: è la negazione di
quanto detto finora (improvvisazione, inconoscibilità,
indeterminatezza dei tempi), e rischia di vanificare il lavoro
svolto.
Sull’ordine del giorno è giusto
essere preparati. Anzitutto deve esserlo chi convoca la riunione, e
non è così scontato, ma ovviamente vale per tutti. “No alla
sciatteria”, in questo caso, riguarda la superficialità
dell’approccio agli argomenti.
IN PERFETTO ORARIO.
Esistono criteri precisi che
individuano gli orari ideali per una riunione. Tuttavia, spesso la
collocazione nella giornata dipende da fattori non governabili. Se i
partecipanti arrivano da destinazioni diverse, convocare una riunione
in prima mattinata può pregiudicare la presenza di tutti fin
dall’inizio; un’associazione di volontariato non può permettersi
una riunione in orario lavorativo; un’azienda, al contrario, deve
cercare in ogni modo di rimanervi dentro; e via dicendo. Inoltre, a
meno che non sia previsto un buffet, è quanto mai inopportuno tenere
riunioni in ora di pranzo, e se è prevista una durata complessiva
superiore ad un’ora, l’organizzatore in gamba prevedrà una pausa
di un quarto d’ora per un caffè ed un salto in bagno. In
definitiva, se si punta alla qualità della partecipazione, è
essenziale che i presenti stiano il più possibile “comodi”,
anche se – ne parlo di sfuggita nel mio più recente romanzo – in
certe dinamiche organizzative malate si vuole al contrario far stare
“scomodi” i partecipanti, cosa che personalmente trovo aberrante.
UN FILM DI ANIMAZIONE.
Per rendere gli argomenti più
interessanti, “vivibili” e partecipati, l’organizzazione può
definire alcune modalità di lavoro che fungano da “variazione sul
tema”. Tra queste l’assegnazione di compiti o di relazioni
all’interno della riunione – ad esempio, delegare un soggetto o
un gruppo all’esposizione (preparata!!) di uno specifico argomento
– e, soprattutto, un’animazione adeguata, sia quando si parla o
si spiega, sia per quanto concerne il materiale accompagnatorio
(presentazioni, documenti).
Sull’animazione ci sarebbe molto da
aggiungere, ma ci torneremo in una prossima puntata. Per riassumere
in due parole: parlare “in” pubblico, parlare “al” pubblico,
animare, gestire una platea, è una dote naturale, un’arte. E’
qualcosa di innato. Non si insegna e non si impara. E’ come la
musica, la scrittura o il disegno: se non sei capace, con
l’applicazione puoi migliorare, ma non diventi un artista. Tutto
questo per dire che, nella generalità dei casi, chi gestisce una
riunione non necessariamente ne ha le capacità. Lo fa per ruolo o
per grado, ma la riuscita in sé è spesso mediocre, forse
funzionale, ma talvolta addirittura controproducente. Anche per
questo chi organizza una riunione dovrebbe avere l’umiltà di
riservarsi solo qualche piccolo spazio di sintesi – introduzione,
conclusioni - e lasciare campo a chi sa meglio veicolare i concetti.
Ma è raro: di solito chi “guida” è vittima di meccanismo di
autoreferenzialità e punta sulla gerarchia (“sono capace perché
sono il capo”), un po’ come se il comandante dei vigili urbani
ritenesse, per il ruolo che ricopre, di essere bravissimo ad
insegnare il codice della strada. E poi forse gli piace anche
ascoltarsi mentre fa prendere aria alla dentatura tenendo lunghissime
e pedanti concioni.
TUTTO, MA CON MODERAZIONE.
Facciamo caso ad un'altra stortura
tipica delle riunioni, specie quelle che abbiamo definito
"monocentriche". Sarebbe sempre buona norma che chi ha
contenuti da “riversare” su una platea di partecipanti, essendo
una delle parti in causa – io espongo, a volte addirittura ordino,
voi ascoltate per poi eseguire – demandasse ad un terzo la
moderazione o la presidenza della riunione. E’ quanto avviene
solitamente in certi contesti: assemblee (organismi politici e
ammnistrativi, associazioni, condomini, aziende a partecipazione
diffusa…), dibattiti, convegni, simposi, e altri. E’ quanto, al
contrario, non avviene mai in altri. Un uomo solo al comando che se
la canta e se la suona: organizza, convoca, parla per tempi
lunghissimi, modera… Una modalità da mandare velocemente al
macero, se si potesse. Ma tanti, troppi capi – capi, talvolta
capetti, ogni tanto addirittura kapò, non leader – temono di
perdere potere e ascendente, vittime degli schemi imposti dal sistema
o delle proprie insicurezze ed impreparazioni, e così tendono a
perpetuare quello che è uno degli errori più comuni, senza rendersi
conto che potere, ascendente, stima e considerazione scivolano via,
inesorabilmente, proprio in questo modo.
SE UN PENNY TU MI DAI, E UN PENNY IO TI DO...
Quali sono i comportamenti “virtuosi”
per chi conduce una riunione? Di alcuni abbiamo già parlato: la
preparazione, la chiarezza negli obiettivi, la brillantezza
nell’esposizione. Proviamo a vederne qualcun altro.
Anzitutto, la capacità di saper
promuovere il dibattito. E’ figlia di due delle prerogative più
importanti (e non sempre presenti), ossia della capacità di ascolto
e del sapersi mettere in discussione. Chi non ha paura del confronto
– e qui va colta l’enorme differenza esistente tra autorità e
autorevolezza – ascolta qualsiasi idea, anche la più balzana. Al
limite cerca di coglierne gli spunti utili, ma sicuramente non la
stronca, né tanto meno la sbeffeggia. Atteggiamenti sbagliati che
spengono il dibattito e mortificano la partecipazione attiva. Al
contrario, la figura centrale di una riunione deve essere preparata a
rispondere ad ogni possibile domanda. Non farlo ha un forte
retrogusto di impreparazione, nel merito (non so nulla di più di
quanto racconto) o nel metodo (non intendo dare alcuno spazio agli
interlocutori, e l’unica cosa che deve passare è il mio
messaggio).
Allo stesso modo devono essere accolte
le obiezioni e le opinioni dissenzienti, il che non significa - come
tanti pensano – farle proprie e annacquare la proposta, ma cercare
di arricchirla con punti di vista diversi, senza farsi condizionare
dal retropensiero che si tratti di alibi. E’ un principio valido in
assoluto: nello scautismo si suole dire che se tu mi dai un penny e
io ti do un penny, ognuno resterà con un penny; ma se io ti do
un’idea e tu mi dai un’idea, ce ne andremo entrambi con due idee.
Un altro aspetto fondamentale riguarda
il coinvolgimento dei partecipanti. Di tutti i partecipanti, nessuno
escluso. Chiunque deve poter avvertire l’utilità di quanto si sta
dibattendo, e deve sentirsi parte attiva non solo nella fase “a
valle”, quella che potremmo definire “realizzativa”: avremmo
esecutori, non protagonisti. Ogni partecipante, al contrario, deve
poter percepire – e qui sta molto alla capacità dell’organizzatore
– la possibilità di influire sui progetti, sui programmi, sui
processi. Sulle cui differenze magari ritorniamo un’altra volta. Se
si sente odore (sgradevole) di risultato predeterminato, il tempo
impiegato sarà stato sostanzialmente inutile – si sa già dove si
vuole arrivare – quando non dannoso.
ESEMPIO E RISPETTO.
Per quanto possa apparire scontato, è
poi opportuno ribadire come il “titolare” della riunione debba
essere una figura credibile nei confronti dei suoi aventi causa, nel
senso che può pretendere assenso e consenso solo su comportamenti
che gli sono propri. In altre parole, deve essere un esempio
specchiato di ciò che propugna, pena l'assoluta inefficacia delle
tesi sostenute: il primo a partire, l'ultimo a ritornare.
Un fattore di successo è dato dal
rispetto nei confronti degli intervenuti, che si manifesta
nell'apprezzamento rivolto verso i presenti, ringraziandoli per la
partecipazione e per l'apporto. Da evitare come la peste la gogna nei
confronti di uno o più singoli: né insulti, né esecrazione, né
sminuimento. E' roba da persone piccole, che per emergere hanno
necessità di abbassare qualcun altro. Così come vanno lasciati
fuori gli eventuali conflitti irrisolti tra i singoli, specie se
coinvolgono l'organizzatore: l'elettricità sarà facilmente
avvertibile e produrrà un tracollo del clima.
STLISTICAMENTE PERFETTI.
L'atteggiamento, in generale, deve
essere costruttivo e collaborativo. Toni sciolti e possibilmente
brillanti, mai banali, con ricorso allo spirito – la qualità del
messaggio ne risulta amplificata e sarà più facile da ricordare –
e alla citazione. Da censurare espressioni del tipo: “Come voi mi
insegnate...”, o “Come potete ben capire...”: presuppongono la
sostanziale ignoranza dell’ascoltatore!
Il “no alla sciatteria”, in questo
caso, si concretizza nel linguaggio da utilizzare. Preferibilmente
colto più che modaiolo, bene che abbia riferimenti letterari,
musicali, cinematografici. Meglio se ogni tanto “profuma” di
latino e, più in generale, di classico, e ancora di più se non
“puzza” di quei fastidiosissimi, vuoti e grotteschi anglismi di
cui si nutrono certi provincialissimi e sbrigativi replicanti,
vestali di riti insulsi di cui si sentono divulgatori.
CONCLUDENDO, CONCLUDENDO...
Infine, la conclusione. Premesso che
nei consessi più strutturati è prevista una figura istituzionale di
segretario/verbalizzatore, è buona norma che qualcuno si prenda la
briga di farlo anche nelle riunioni più informali, uno straccio di
verbale. La sua utilità è talmente evidente che non si dovrebbe
nemmeno citarla, ma vale la pena ricordare che è utile, se non
indispensabile, per controllare a fine riunione se tutti sono a
bordo; è utile, se non indispensabile, per fare l'appello degli
argomenti all'ordine del giorno e vedere se è sfuggito qualche
pezzetto; è utile, se non indispensabile, per assegnare eventuali
compiti successivi; è utile, se non indispensabile, per verificare
il lavoro svolto; è utile, se non indispensabile per non tornare
ripetutamente su decisioni già prese (un difetto frequente, ad
esempio, nel mondo associativo); è utile, se non indispensabile, per
misurare l'efficacia dell'evento in sé. Il verbale va poi inviato ai
partecipanti e deve essere conservato in modo intelligente e
consultabile, ai fini di quanto detto sopra.
Ottima cosa, poi, predisporre una
verifica sulla riunione, che sia riservata e anonima, e che verta non
tanto sui contenuti, quanto sulle modalità (logistica,
orgnaizzazione, congruità della convocazione, rispetto dei tempi,
efficacia della comunicazione, eccetera). Solo organizzatori pavidi o
refrattari alla critica passano tranquillamente sopra a questi ultimi
aspetti, nella consapevolezza che – capaci o no, efficaci o no –
non hanno la minima intenzione di cambiare una virgola del proprio
stile comunicativo o di potere, perchè si piacciono così, o pensano
che non esista un'altra strada.
Un limite: ma anche di questo avremo
modo di parlare un'altra volta.
Buona Pasqua a tutti!
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