LA TRISTEZZA, IL MAIALE, L'IGNAVA

Ebbene sì: per chi ancora non se ne fosse accorto - e bisogna non avermi frequentato, letto, compreso - dirò chiaro e tondo che amo la retorica. Anzi, che non solo la amo e la pratico, ma non riesco proprio a concepire modi di comunicare poveri nei contenuti e dimessi nella forma. Di chi batte questa strada penso immediatamente male, un male selettivo e irriducibile.
Amando la retorica, e quindi le sue implicazioni, amo un modo di essere identitario, forte, espressivo e poco incline ai compromessi ideali quanto capace di dialettica forte e inclusiva. Non una marmellata di idee diverse e spesso antipodiche confuse in quello che oggi viene chiamato (a torto, grazie al cielo) "pensiero unico", ma una sintesi o un confronto tra idee marcate e non necessariamente conciliabili. "Aut... aut...", più che "Et...et...".
Non ci sarà mai spazio dalle mie parti - faccio solo alcuni esempi - per chi sostiene che è "beato il popolo che non ha bisogno di eroi" (Bertolt Brecht), o per chi postula "Un'unica grande chiesa, che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa". Guarda un po': penso, testimonio e pratico il contrario.
Parto da questo ampio preambolo per raccontare un episodio che mi è accaduto ieri.
Siamo a Genova Brignole, capolinea di uno dei molti autobus diretti verso il Levante. Sto parlando di lavoro, al telefono, con mio papà Argeo.
Al momento di salire sul mezzo, un cesso d'uomo grasso, barba incolta, grazia e stile da terzamedista, butta ostentatamente a terra tre grossi pezzi di carta in cui era avvolta la focaccia che - con la classe che immagino lo contraddistingua in ogni frangente - aveva appena terminato di fagocitare.
Sempre al telefono con papà, spontanea mi monta la carogna, con le sembianze di uno sguardo torvo e repressivo.
Il primate a sua volta mi guata in tralice, e mentre sale sul bus mi chiede, con espressione di sfida: "Vuole raccoglierla lei?".
Livello di saturazione raggiunto: "No, la raccolga lei! Lei l'ha buttata, lei la raccoglie e la butta in un cestino!".
"Non ci penso neanche!" - prosegue il bifolco, andandosi smaccatamente a sedere a centro autobus. - "E comunque, - aggiunge, - non sono cazzi suoi".
"Sono cazzi miei! - Gli grido dalla piattaforma posteriore dell'autobus, dove mi ero sistemato. - "Se tutti facessero come lei, questa città sarebbe un porcile!".
Temo di aver aggiunto anche un'interiezione non proprio delicata e una botta di "brutto maiale" al quadrumane. Mio padre, nel frattempo, mi dice: "Sento che hai da fare, ci sentiamo più tardi".
L'autobus nel frattempo è partito, lasciando dietro di sé la montagna di carta cacciata per terra dal subumano, con il quale continua la schermaglia a distanza.
Sono meravigliato del fatto che sull'autobus nessuno abbia fatto una piega. Mi sarei aspettato una levata di scudi contro il sudicione, anche perché, in un'epoca di ecologismo a basso costo, l'argomento sembra far presa.
L'unica, sorprendente reazione, invece, arriva da una signora in evidente deficit di presenza a se stessa. Ha vicino un bambino sui sette/otto anni, e sta parlando al telefono.
"Eh, cosa vuoi, ci sono qui due gran maleducati che parlano in modo così volgare, come se ci fossero solo loro, senza preoccuparsi minimamente che ci siano bambini ai quali far ascoltare le loro oscenità... eh, sì, devono discutere le loro questioni davanti a tutti...".
Sarebbe stato difficile, in quel preciso momento, trovare qualcosa che mi potesse far imbufalire di più. L'ignava che "né con lo Stato, né con le BR". Io e lo scimpanzé sullo stesso piano.
"Ha capito - le faccio presente - di cosa stavamo discutendo? Non siamo sullo stesso piano, io e quel... - lo indico, continua a guardarmi male ma non dice niente - quel maiale".
" A me non interessa di cosa stavate parlando. So solo che siete due maleducati, e che prima di dare certi esempi ai bambini dovreste badare alle parole che usate!".
"Ah! - Continuo io. - Ho capito che non ha capito. Mette sullo stesso piano un animale che butta un lenzuolo di carta per terra e chi glielo fa notare".
Prova a spiegarmi, seccata, che le attribuisco cose che non ha mai detto, ma ormai ho smesso di ascoltarla, e non ricordo nemmeno se il "Brutta bagascia" che mi sgorga dal cuore l'ho detto davvero o l'ho soltanto pensato.
Il finale triste - triste come me: triste solitario y final, per dirla con Osvaldo Soriano - è vedere gli altri passeggeri, muti. Codardi, rassegnati, più probabilmente "nonglienefregauncazzo". Non vorrei essere Greta Thunberg, è una battaglia persa.

P.S.: ormai, a detta della peppia che mi ha fatto la morale perché ho detto "cazzi miei" davanti al figlio, avevo perso la dignità. Così, quando il tanghero, uscito dall'autobus all'altezza di San Martino (non ricordavo ci fosse anche una clinica veterinaria), mi ha fatto il segno delle corna, non ho avuto scrupoli nel rispondergli in Eurovisione con quello delle mani a V sul cavallo dei pantaloni.