E 626 ROCO: QUARANT'ANNI DEL MODELLO PIU' AMATO DAGLI ITALIANI.

Esattamente quarant'anni fa, a inizio 1980, accadde un evento che divenne un vero e proprio fenomeno imprenditoriale e trasformò per sempre la cultura modellistica italiana, in particolare quella fermodellistica, che ne rappresenta per molti versi l'espressione più compiuta. La casa austriaca Roco mise infatti in commercio il modello della locomotiva elettrica italiana E 626, una delle più famose del parco FS, Costruita in 448 esemplari – un'enormità - fra il 1927 e il 1939, in servizio fino agli anni Novanta, fu la prima locomotiva alimentata con il sistema a corrente continua 3,000 volt, con il quale, da quel momento, vennero attrezzate le nuove elettrificazioni nazionali, diventando lo standard italiano a tutt'oggi imperante (linee AV a parte).

Un mezzo famosissimo e diffusissimo, quindi, che gli appassionati chiedevano a gran voce da tempo. E fu davvero una rivoluzione. Fino a quel momento, infatti, tolte alcune costose e non sempre affidabili creazioni artigianali, il mercato fermodellistico italiano era dominato da due grandi case: la LIMA di Vicenza, all'epoca la più venduta a livello mondiale, che produceva modelli adatti a qualsiasi tasca – era spesso il regalo di Natale più ambito dai bambini - ma con qualche non secondaria approssimazione modellistica; e la Rivarossi, di Como, dai costi decisamente superiori, che aveva a catalogo alcune pregevoli riproduzioni modellistiche di mezzi italiani, ma con un difetto che la rendeva poco compatibile con i modelli di altre marche: il mancato rispetto della canonica scala H0 (1:87), tanto che all'epoca c'era chi parlava di “Scala Rivarossi” per indicare modelli che rispecchiavano all'incirca un rapporto 1:80. La stonatura era del tutto evidente agli occhi dell'osservatore, specie quando si trattava di accostare i modelli della casa comasca a quelli di altri marchi.

Alla fine degli anni settanta, su pressione della famosa rivista “Italmodel” e del suo editore, Enrico Milan, uno dei “profeti” del fermodellismo italiano, l'importatore della casa salisburghese Roco, Faustino Faustini (Gieffecì), ottenne l'attenzione del produttore. Non si trattava di un'impresa semplice: gli appassionati italiani erano (e sono) un mercato numericamente meno appetibile di altre nazioni europee, e il raggiungimento di una massa critica di acquirenti tale da rendere commercialmente appetibile l'operazione non appariva così scontato.

All'epoca la Roco, azienda giovane ed in crescita, si andava affermando nel mercato fermodellistico dell'area germanofona a fianco di alcuni colossi storici, come Marklin e Fleischmann, per le sue riproduzioni dettagliate, in perfetta scala, e dal funzionamento ottimale, a prezzi oggettivamente accessibili. Il tutto, però, a patto di poter “stampare” un numero adeguato di pezzi per ciascun modello.

Appena in Italia circolò la voce di un possibile interessamento di Roco per la E 626 l'ambiente fermodellistico italiano entrò in fibrillazione: fioccarono iniziative, giunsero prenotazioni da tutta Italia, si scrissero articoli e si indissero riunioni e conferenze. Stupita da tanto entusiasmo, Roco decise di mettere in produzione il modello, facendo sapere che avrebbe organizzato una spedizione fotografica in Italia per ritrarre dal vivo questa peraltro bellissima locomotiva.

La gestazione durò più di un anno, ma alla fine il modello uscì, e fu un successo ancora superiore alle aspettative. Bello, curato, in molte versioni diverse, con varianti di coloritura a seconda dell'epoca storica, piacque a tutti, e non solo in Italia. Ne vennero vendute decine di migliaia di copie: all'epoca il casellante era un ragazzino, e con un po' di sacrificio ne acquistò un esemplare, che troneggia ancora nel deposito locomotive del plastico, ma ci fu chi ne acquistò due, tre, anche cinque e più modelli diversi, in tutte le varianti in cui fu prodotto per ambientazione, livrea e tipo di serie costruttiva.

Un boom senza precedenti e inatteso nelle dimensioni, ma anche un'autentica rivoluzione. Da quel momento, travolte dal successo altrui, le case nazionali dovettero adattarsi ai nuovi standard qualitativi. Rivarossi rivide progressivamente il proprio catalogo, e iniziò a riprodurre modelli in scala esatta senza rinunciare alla sua riconosciuta qualità, mentre LIMA saltò in breve tempo dalla dimensione giocattolesca – che ne aveva condizionato in qualche modo la fama – a quella modellistica, puntando sia sulla sua robusta e affidabilissima meccanica (il motore tipo “G” è ancora oggi considerato uno dei migliori mai prodotti), sia soprattutto sui mezzi più recenti in opera sulla rete nazionale, perchè – e fu un'intelligente scelta di marketing – potevano attrarre sia il modellista provetto, sia il principiante e il giovanissimo, trattandosi di mezzi visibili quotidianamente sui binari.

Da allora il mondo fermodellistico è cambiato: gran parte dei mezzi italiani sono stati riprodotti almeno una volta (un tempo la scelta era estremamente limitata), nuove case si sono affacciate alla ribalta, le produzioni sono state in gran parte esternalizzate in Estremo Oriente, modelli dalla meccanica sempre più sofisticata – si pensi solo alla digitalizzazione delle funzioni – permettono movimenti inimmaginabili solo pochi anni fa, mentre il grado di dettaglio è sceso a livelli quasi maniacali, e non necessariamente è un bene, perchè – a meno che non si scelga di lasciare i modelli in bacheca – ogni piccolo dettaglio aggiuntivo va a scapito della robustezza del modello, che sul plastico deve girare e farlo possibilmente a lungo.

Ma niente di tutto ciò sarebbe stato possibile, almeno in Italia, senza un “sensibilizzatore italiano”, Enrico Milan – che per un beffardo scherzo del destino morì improvvisamente pochi mesi prima dell'uscita del modello che aveva tanto sognato -, senza una casa austriaca, Roco, e senza il suo modello di punta, la E 626, il cui quarantesimo compleanno festeggiamo con una serie di immagini tratte dalla rete.

ADDIO GIAMPAOLO, UOMO LIBERO.

Con la scomparsa di Giampaolo Pansa esce di scena uno dei principali protagonisti della letteratura italiana del periodo a cavallo dei due millenni. 
Il suo primo, indiscutibile merito è stato quello di aprire una finestra laica, non di parte, sulla storia dell'immediato dopoguerra vissuta dal lato degli sconfitti. La serie di saggi, inaugurata con "Il sangue dei vinti", ha effettivamente aperto una nuova stagione di riflessione storica, e quello che al Casellante è parso particolarmente significativo è  stato vedere le reazioni scomposte, a volte isteriche (ma sul serio, proprio da "persone disturbate"), di quelli che Pansa ha definito i "gendarmi della memoria", figure meschine la cui unica preoccupazione è che nessuno discuta i dogmi che permettono ad una delle fazioni coinvolte di ricoprire anche il ruolo di arbitro. 
Per certi versi sembra di essere tornati ai tempi delle Brigate Rosse: non potevano essere di sinistra, per cui la regia era da cercare in altri ambienti (le "sedicenti", berciava la vulgata ufficiale). Oggi, essendo impossibile che un uomo di sinistra, e per giunta non certo imbecille, possa anche solo criticare l'antifascismo - in Italia, chissà perché, è più grave che pisciare nell'acquasantiera -, chi lo fa o non è più di sinistra, perché comprato dal nemico (c'è da immaginare che Berlusconi vada bene in qualunque occasione, è come un vestito blu) o anche semplicemente rincoglionito, oppure non lo è mai stato.
Ma Giampaolo Pansa era anzitutto e soprattutto un uomo libero, di pensieri e di parole, e come non ha mai lesinato il suo favore per la sinistra politica italiana, così ha avuto il coraggio di dire, con i suoi scritti, che condannare il fascismo non significa automaticamente condannare le persone, e credere nella democrazia e nella costituzione non implica l'accettazione acritica di qualsiasi comportamento dell'antifascismo, specie quello arrivato fuori tempo massimo. 
Credo non possa essere messo in discussione che Giampaolo Pansa fosse un uomo concretamente di sinistra. Quindi, rispetto al Casellante, un avversario. Ad averne, però, di avversari così: talmente acuti da saper leggere anche le ragioni di chi, al suo occhio, aveva torto. 
Onore a lui. Da lassù, scrollerà spalle sentendo starnazzare le oche dell'odio fine a se stesso.