UNA NUOVA RUBRICA SU LIGURIA SPORT: FUORICLASSE.

I primi tre articoli in indirizzo URL:

https://www.liguriasport.com/2020/10/21/fabio-quagliarella-il-giuseppe-verdi-blucerchiato/

https://www.liguriasport.com/2020/10/23/cento-anni-fa-il-tamburino-e-40-anni-fa-se-ne-andava-serafini/

https://www.liguriasport.com/2020/11/18/dalla-sfida-tricolore-pietrangeli-panatta-a-jannik-sinner/

AUTUNNO E INVERNO, SPARITE!

Ci provo da cinquantotto anni, ma non ci riesco. Presumo che la colpa sia anche mia, perché della cosiddetta e così attuale "resilienza" non disprezzo solo il termine, ma almeno altrettanto il concetto sotteso. Ma che sia così, oppure no, è l'ora di prendere posizione: a me la stagione autunnal-invernale non piace.
È un male necessario, che - non potendo intervenire in nessun modo, escludendo ripetuti e costosi trasferimenti ai Caraibi - sono costretto a digerire ogni anno, sbuffando lungo le ore che mi separano dai primi tepori primaverili, ma non riuscirò mai ad apprezzarla.
Non trovo paragonabili le lunghe giornate in cui puoi farti un bagno in mare a ridosso di cena, o lavorare in giardino o nell'orto tornando a casa dal lavoro a quelle in cui è il buio ad accomunare l'uscita e il rientro. Mi intristisce e mi maldispone quando il "mio" agosto va a spegnersi per lasciare spazio agli orridi mesi con la desinenza "-bre", la parabola annuale dell'invecchiamento, in cui le om-bre - stessa desinenza. Coincidenze? Io non credo - si allungano fino a liquefarsi sul marciapiede o sul prato.
Non mi piace, e mi faccio apostolo del verbo primaveril-estivo. Non mi piace, e non può certo riuscire a farmela andare a genio quel profluvio di vantaggi che amici e conoscenti - anche questa volta, persino questa volta - andranno ad enumerare postulando la pari dignità, quando non addirittura la superiorità, delle giornate più fredde e più corte.
Nella disputa dialettica entreranno argomenti tipo: "Eh, ma vuoi mettere il Natale?", oppure: "Ma le caldarroste, e la neve, che suggestioni!". O, più ecumenicamente, la considerazione che, in fondo, ogni stagione è bella a modo suo, e basta saperla apprezzare.
Che assomiglia tanto a quelle secondo cui i diversi totalitarismi - così non facciamo torti - hanno combinato anche cose buone.
Come ogni anno, allo scattare dell'ora solare, smarcherò le settimane - di solito ventitré - che mi separano dal ritorno dell'ora legale, che aggiunge una non banale ora di sole alle giornate che da sempre sono definite, non certo a caso, "la bella stagione". Contrapposta a quella brutta, che mai come in questi tempi di sciagura e malattia sembra voler inghiottire nella sua oscurità gioie e sorrisi. E, naturalmente, nella speranza che non vada in porto lo sciagurato progetto di eliminarla, l'ora legale, cosa che finirebbe per ridare fiato alle mie pulsioni sovraniste.
Ai Santi, inevitabilmente, penserò che come ogni anno le belle donne di ogni età spariranno dalla circolazione, imprigionate dal malvagio "Generale Inverno", per poi riapparire come per magia attorno al primo maggio, leggiadre e sorridenti.
A gennaio, goffamente intabarrato in tute in morbida lana di vetro, maledicendo l'ultimo gancio degli scarponi da sci che - complici le dita bluastre per il rigor mortis - non vuole acchiappare la linguetta che solo un inguaribile ottimista può definire "corrispondente", rimpiangerò il panzone in braghetta ed infradito che ha capito tutto, perché basta un asciugamano per fare estate, e il mare è per tutte le tasche e invece la neve no.
Patisco in modo particolare gli anni come questo, in cui già da settembre acqua e freddo ti avvertono che stop!, Niente più maniche corte. Perché ogni bagno in mare che si addentra in ottobre è un polder bonificato alle paludi malariche dell'inverno.
Ci provo da cinquantotto anni, ma non ci riesco. Credo sia arrivata l'ora della consapevolezza e, quindi, della resa. Tanto, quando sul calendario scatta marzo, sarà già di nuovo estate, e in fondo, e a ben pensarci, non manca tanto.

BUONE VACANZE ...DAL CASELLO!

Ne abbiamo tanto bisogno, tutti. Non sappiamo cosa accadrà in autunno. non per la salute, non per la società, non per l'economia ed il lavoro. 

Cerchiamo allora di rilassarci per qualche giorno, senza pensieri che non siano quelli di distrarci, di dedicarci a cose semplici ma che ci piacciano.

Per tutto il resto ci sarà tempo, quando questa strana estate finirà. Comunque vada, alleniamoci per la prossima: sarà sicuramente migliore.

Un abbraccio dal Casellante.

CI SEMBRA DI AVER PATITO ABBASTANZA...

...è quanto ho sentito dire da una persona a me vicina qualche settimana fa, mentre era in coda - coda interminabile, e ripetuta, sia detto chiaramente - su una delle tratte autostradali della Liguria.
Come il Csellante ha già avuto modo di scrivere su un noto social network professionale, c'è da aggiungere una considerazione personale.
Dopo due giorni di viaggio per le autostrade liguri mi sono fatto un'idea dettagliata. Cantieri aperti ovunque, chiusure di caselli assurde (perchè, tanto per fare un esempio, Chiavari e Lavagna in contemporanea?), salti di corsia, chilometri di riduzioni per dieci metri di operatività, e potrei continuare.
Non credo solo ad uno sforzo straordinario di rinnovamento: perchè tutto insieme, dopo decenni di trascuratezza? Perchè non durante la chiusura da Covid-19, e invece tutti i lavori fanno boom quando potrebbe ripartire tutto il tessuto produttivo ligure?
Non vorrei dirlo ma lo penso: malafede e ricatto. "Lo faccio apposta. Mi hai dato ceffoni in continuazione, specie dopo il crollo del Ponte Morandi? Mi minacci ogni momento su concessioni e penali? Bene, io faccio il mio dovere, quello che tu, ligure (e non solo), mi accusi di non aver fatto per decenni. Sui tempi e sui modi decido io".
Poi ci sarebbe da aprire un altro libro, sulle responsabilità del vettore ferroviario, che ha rinunciato da decenni al traffico diffuso, regalando di fatto le autostrade al camionismo, dannoso, inquinante, antieconomico. Ne abbiamo parlato spesso, su queste colonne. Ma sarà comunque oggetto di una prossima riflessione.

AIUTI FINANZIARI ALLE IMPRESE, MA NON AL TERZO SETTORE: PERCHE'?

Non c'è modo più trito – attualmente - che iniziare un proprio pensiero con frasi tipo: “Uno degli effetti del Coronavirus...”, oppure “Tra le tante conseguenze di questo periodo...”. Però , una volta raspata via la crosta superficiale del “deja vu” (e pure tanto, “vu”), la riflessione ci porta a considerare fattori che - davvero! - in altri momenti si notano poco, o non si notano affatto.
Ne cito uno: l'importanza vitale del “Terzo Settore”. Non mi dilungo in considerazioni socioeconomiche sui valori del volontariato o dell'associazionismo: ognuno potrà fare le sue valutazioni, come è sempre successo (altrimenti saremmo sessanta milioni di volontari, mentre la percentuale non supera il 10% della popolazione).
Ma questa forza disarmata, di norma disinteressata, silente e operosa, che con umiltà e fin troppa litotica inconsistenza visiva “rende soave il giogo e lieve il peso”, occupandosi di tutto quanto fa socialità – persone, disagi, sport, cultura, natura – si staglia in questi frangenti con tutta la sua indispensabilità. Quando può e deve agire – Protezione Civile, assistenza – e quando non può farlo – lo sport, ad esempio.
Viene allora da chiedersi se c'è un disegno o semplice ignoranza (nel senso di Aldo, Giovanni e Giacomo: si ignora...) dietro la mancanza di considerazione del Terzo Settore nei due principali provvedimenti governativi che cercano di fronteggiare la crisi da Covid-19 anche dal punto di vista economico, in particolare per quanto riguarda la finanza (moratorie, accesso a forme di finanziamento, eccetera). E se poteva essere uno scivolone superficiale non aver ricompreso nel “Cura Italia” il non-profit, dopo le obiezioni sollevate da questa galassia non può essere più considerato accettabile che quanto previsto per le imprese nel “Decreto Liquidità” trovi solo applicazioni marginali per un comparto che, da solo, vale circa il 5% del PIL (come la moda, tanto per capirci).
Per questo mi piace condividere quanto ho trovato un paio di giorni fa su “Vita.it”, quanto di più autorevole nel campo del non-profit.
http://www.vita.it/it/article/2020/04/16/decreto-liquidita-cosa-devono-sapere-gli-enti-del-terzo-settore/155051/ 

LA RIUNIONE: CARI AMICI VICINI E LONTANI...

Uno degli effetti peggiori di questo momentaccio storico è la sensazione di inutilità che ti acchiappa alla gola, costretti come siamo a pochi e ripetitivi movimenti – lavoro, negozio di alimentari, una botta di vita in farmacia – e senza la possibilità di dare effettivamente una mano, considerando divieti ma anche effettive abilità.
Mi sono chiesto: cosa posso fare di utile per gli altri, in questa assurda stagione della nostra vita, attingendo alle (poche) cose che so fare? So scrivere, so parlare, so animare, so fare formazione e intrattenimento... Siccome il distanziamento sociale obbligatorio rende indispensabili modalità di incontro del tutto diverse, nella consapevolezza di quanto sia più che mai necessario "trovarsi", anche senza contatto fisico, e dal momento che lo fa la scuola, con la didattica a distanza; lo fa il mondo del lavoro, con le formule più diverse volte a far sì che l'operatività scorra anche "da remoto"; lo sperimenta qualsiasi realtà organizzata - dalla famiglia alla parrocchia - che cerchi dare continuità alle proprie relazioni; e poiché ho una lunga esperienza – associativa, politica, lavorativa – nell'organizzazione e nella gestione professionale di eventi e nella partecipazione a incontri e conferenze di qualsiasi natura, ho messo insieme un po' di riflessioni sulla “riunione”: cos’è, come si fa, come non si fa…

ENTRIAMO IN ARGOMENTO. 
Nel mondo del Non-profit si sente spesso dire che le associazioni muoiono di noia, ed è vero: viene meno lo spirito associativo, ci si dimentica dell’afflato che ha unito gli associati, si ripetono all’infinito i medesimi comportamenti e si riduce a meccanica ciò che ai primordi era mosso da passione. Nelle aziende e negli organismi pubblici il fenomeno si avverte meno solo perché la finalità è diversa, ma non lo sono i meccanismi partecipativi, che perdono mordente anche in funzione della capacità di coinvolgimento di chi “detta i tempi”.
In natura esistono tanti tipi di riunione: organizzativa, tecnica, informativa, assembleare, e si potrebbe andare avanti ancora per un bel po'. Limitiamoci a considerare due possibili specie: quella monocentrica – un “centro”, che può essere un capo o una figura specialistica che ha da illustrare qualcosa – e quella policentrica – una “comunità” di pari, con un coordinatore. Le indicazioni che seguono, in linea di massima, si adattano ad entrambe le tipologie.
Anzitutto, una riunione deve essere importante. Deve “contare qualcosa”. Deve avere un senso, non essere un appuntamento ricorrente, anche laddove – per assurdo – lo sia davvero, perché previsto da qualche regola. Non ci si deve “vedere” (o “sentire”) per forza, perché è un momento fisso e storico, perché “si è sempre fatto così”, perché è routine, o perché è importante “guardarsi in faccia”, anche a distanza, o perchè nella crapa del responsabile esiste la fregola di vedere i collaboratori attorno ad un tavolo. Va ricordato che chi organizza una riunione e convoca altre persone si assume la responsabilità di farle muovere o connettere, disponendo di tempi e risorse propri ed altrui. Anche qualora sia previsto – tanto per fare un esempio – che ci si veda/senta ogni martedì mattina, se capitasse di non avere argomenti da discutere, nulla vieta di saltare la riunione e di sospenderla per un giro.
Se l'incontro è importante, non può avere un menu prefissato, o essere recitato a soggetto, improvvisando la trama. Deve avere uno o più obiettivi, che per essere considerati davvero tali devono possedere alcune caratteristiche imprescindibili, tra le quali spiccano la concretezza e la misurabilità.

PREPARARSI E PREPARARE.

Da quanto sopra emerge la necessità di prepararsi adeguatamente. Vale per tutti i partecipanti, ma soprattutto per chi organizza. Teniamo conto che, di fatto, la riunione inizia al momento della convocazione, la quale deve essere quindi ben curata. Il “no alla sciatteria” – un ritornello di queste note formative – parte da un certo rispetto della forma fin dal momento dell’ideazione.
Cos’è quindi la convocazione? E’ quella comunicazione che, fatta pervenire con un congruo anticipo – l’ideale è non meno di una settimana, con un paio di rinfreschi di memoria - e con modalità “serie” - no alla telefonata e ancor meno al messaggio sul telefonino -, permette a tutti di sapere che ci si vedrà o ci si sentirà il giorno X (magari utilizzando una formula del tipo: “Ricordiamo l'appuntamento di mercoledì mattina...”, in caso di impegni ricorrenti e stabili), per parlare di… Di? Calma, prima i tempi! Anzitutto va indicato un orario di inizio e uno di fine, che devono essere rispettati. No assoluto alle riunioni ad oltranza, purtroppo assai diffuse in alcuni ambiti (in particolare nel sociale e nel politico). Sono la miglior pubblicità …per l’assenza della volta successiva!

TENIAMO IN ORDINE. DEL GIORNO.

Poi, l’ordine del giorno. Pochi punti, ma chiari, e accompagnati dal materiale preparatorio. Si può trattare di presentazioni o documenti, ma è importante che siano diffusi in precedenza – ne guadagneranno la partecipazione, la qualità dei contributi, i tempi – e che su di essi verta il dibattito. E’ valido anche chiedere ai futuri partecipanti se abbiano punti da inserire all’ordine del giorno. Vivamente sconsigliata invece la voce “varie ed eventuali”, resa tristemente celebre dalle assemblee condominiali: è la negazione di quanto detto finora (improvvisazione, inconoscibilità, indeterminatezza dei tempi), e rischia di vanificare il lavoro svolto.
Sull’ordine del giorno è giusto essere preparati. Anzitutto deve esserlo chi convoca la riunione, e non è così scontato, ma ovviamente vale per tutti. “No alla sciatteria”, in questo caso, riguarda la superficialità dell’approccio agli argomenti.

IN PERFETTO ORARIO.

Esistono criteri precisi che individuano gli orari ideali per una riunione. Tuttavia, spesso la collocazione nella giornata dipende da fattori non governabili. Se i partecipanti arrivano da destinazioni diverse, convocare una riunione in prima mattinata può pregiudicare la presenza di tutti fin dall’inizio; un’associazione di volontariato non può permettersi una riunione in orario lavorativo; un’azienda, al contrario, deve cercare in ogni modo di rimanervi dentro; e via dicendo. Inoltre, a meno che non sia previsto un buffet, è quanto mai inopportuno tenere riunioni in ora di pranzo, e se è prevista una durata complessiva superiore ad un’ora, l’organizzatore in gamba prevedrà una pausa di un quarto d’ora per un caffè ed un salto in bagno. In definitiva, se si punta alla qualità della partecipazione, è essenziale che i presenti stiano il più possibile “comodi”, anche se – ne parlo di sfuggita nel mio più recente romanzo – in certe dinamiche organizzative malate si vuole al contrario far stare “scomodi” i partecipanti, cosa che personalmente trovo aberrante.

UN FILM DI ANIMAZIONE.

Per rendere gli argomenti più interessanti, “vivibili” e partecipati, l’organizzazione può definire alcune modalità di lavoro che fungano da “variazione sul tema”. Tra queste l’assegnazione di compiti o di relazioni all’interno della riunione – ad esempio, delegare un soggetto o un gruppo all’esposizione (preparata!!) di uno specifico argomento – e, soprattutto, un’animazione adeguata, sia quando si parla o si spiega, sia per quanto concerne il materiale accompagnatorio (presentazioni, documenti).
Sull’animazione ci sarebbe molto da aggiungere, ma ci torneremo in una prossima puntata. Per riassumere in due parole: parlare “in” pubblico, parlare “al” pubblico, animare, gestire una platea, è una dote naturale, un’arte. E’ qualcosa di innato. Non si insegna e non si impara. E’ come la musica, la scrittura o il disegno: se non sei capace, con l’applicazione puoi migliorare, ma non diventi un artista. Tutto questo per dire che, nella generalità dei casi, chi gestisce una riunione non necessariamente ne ha le capacità. Lo fa per ruolo o per grado, ma la riuscita in sé è spesso mediocre, forse funzionale, ma talvolta addirittura controproducente. Anche per questo chi organizza una riunione dovrebbe avere l’umiltà di riservarsi solo qualche piccolo spazio di sintesi – introduzione, conclusioni - e lasciare campo a chi sa meglio veicolare i concetti. Ma è raro: di solito chi “guida” è vittima di meccanismo di autoreferenzialità e punta sulla gerarchia (“sono capace perché sono il capo”), un po’ come se il comandante dei vigili urbani ritenesse, per il ruolo che ricopre, di essere bravissimo ad insegnare il codice della strada. E poi forse gli piace anche ascoltarsi mentre fa prendere aria alla dentatura tenendo lunghissime e pedanti concioni.

TUTTO, MA CON MODERAZIONE.

Facciamo caso ad un'altra stortura tipica delle riunioni, specie quelle che abbiamo definito "monocentriche". Sarebbe sempre buona norma che chi ha contenuti da “riversare” su una platea di partecipanti, essendo una delle parti in causa – io espongo, a volte addirittura ordino, voi ascoltate per poi eseguire – demandasse ad un terzo la moderazione o la presidenza della riunione. E’ quanto avviene solitamente in certi contesti: assemblee (organismi politici e ammnistrativi, associazioni, condomini, aziende a partecipazione diffusa…), dibattiti, convegni, simposi, e altri. E’ quanto, al contrario, non avviene mai in altri. Un uomo solo al comando che se la canta e se la suona: organizza, convoca, parla per tempi lunghissimi, modera… Una modalità da mandare velocemente al macero, se si potesse. Ma tanti, troppi capi – capi, talvolta capetti, ogni tanto addirittura kapò, non leader – temono di perdere potere e ascendente, vittime degli schemi imposti dal sistema o delle proprie insicurezze ed impreparazioni, e così tendono a perpetuare quello che è uno degli errori più comuni, senza rendersi conto che potere, ascendente, stima e considerazione scivolano via, inesorabilmente, proprio in questo modo.

SE UN PENNY TU MI DAI, E UN PENNY IO TI DO...

Quali sono i comportamenti “virtuosi” per chi conduce una riunione? Di alcuni abbiamo già parlato: la preparazione, la chiarezza negli obiettivi, la brillantezza nell’esposizione. Proviamo a vederne qualcun altro.
Anzitutto, la capacità di saper promuovere il dibattito. E’ figlia di due delle prerogative più importanti (e non sempre presenti), ossia della capacità di ascolto e del sapersi mettere in discussione. Chi non ha paura del confronto – e qui va colta l’enorme differenza esistente tra autorità e autorevolezza – ascolta qualsiasi idea, anche la più balzana. Al limite cerca di coglierne gli spunti utili, ma sicuramente non la stronca, né tanto meno la sbeffeggia. Atteggiamenti sbagliati che spengono il dibattito e mortificano la partecipazione attiva. Al contrario, la figura centrale di una riunione deve essere preparata a rispondere ad ogni possibile domanda. Non farlo ha un forte retrogusto di impreparazione, nel merito (non so nulla di più di quanto racconto) o nel metodo (non intendo dare alcuno spazio agli interlocutori, e l’unica cosa che deve passare è il mio messaggio).
Allo stesso modo devono essere accolte le obiezioni e le opinioni dissenzienti, il che non significa - come tanti pensano – farle proprie e annacquare la proposta, ma cercare di arricchirla con punti di vista diversi, senza farsi condizionare dal retropensiero che si tratti di alibi. E’ un principio valido in assoluto: nello scautismo si suole dire che se tu mi dai un penny e io ti do un penny, ognuno resterà con un penny; ma se io ti do un’idea e tu mi dai un’idea, ce ne andremo entrambi con due idee.
Un altro aspetto fondamentale riguarda il coinvolgimento dei partecipanti. Di tutti i partecipanti, nessuno escluso. Chiunque deve poter avvertire l’utilità di quanto si sta dibattendo, e deve sentirsi parte attiva non solo nella fase “a valle”, quella che potremmo definire “realizzativa”: avremmo esecutori, non protagonisti. Ogni partecipante, al contrario, deve poter percepire – e qui sta molto alla capacità dell’organizzatore – la possibilità di influire sui progetti, sui programmi, sui processi. Sulle cui differenze magari ritorniamo un’altra volta. Se si sente odore (sgradevole) di risultato predeterminato, il tempo impiegato sarà stato sostanzialmente inutile – si sa già dove si vuole arrivare – quando non dannoso.

ESEMPIO E RISPETTO.

Per quanto possa apparire scontato, è poi opportuno ribadire come il “titolare” della riunione debba essere una figura credibile nei confronti dei suoi aventi causa, nel senso che può pretendere assenso e consenso solo su comportamenti che gli sono propri. In altre parole, deve essere un esempio specchiato di ciò che propugna, pena l'assoluta inefficacia delle tesi sostenute: il primo a partire, l'ultimo a ritornare.
Un fattore di successo è dato dal rispetto nei confronti degli intervenuti, che si manifesta nell'apprezzamento rivolto verso i presenti, ringraziandoli per la partecipazione e per l'apporto. Da evitare come la peste la gogna nei confronti di uno o più singoli: né insulti, né esecrazione, né sminuimento. E' roba da persone piccole, che per emergere hanno necessità di abbassare qualcun altro. Così come vanno lasciati fuori gli eventuali conflitti irrisolti tra i singoli, specie se coinvolgono l'organizzatore: l'elettricità sarà facilmente avvertibile e produrrà un tracollo del clima.

STLISTICAMENTE PERFETTI.

L'atteggiamento, in generale, deve essere costruttivo e collaborativo. Toni sciolti e possibilmente brillanti, mai banali, con ricorso allo spirito – la qualità del messaggio ne risulta amplificata e sarà più facile da ricordare – e alla citazione. Da censurare espressioni del tipo: “Come voi mi insegnate...”, o “Come potete ben capire...”: presuppongono la sostanziale ignoranza dell’ascoltatore!
Il “no alla sciatteria”, in questo caso, si concretizza nel linguaggio da utilizzare. Preferibilmente colto più che modaiolo, bene che abbia riferimenti letterari, musicali, cinematografici. Meglio se ogni tanto “profuma” di latino e, più in generale, di classico, e ancora di più se non “puzza” di quei fastidiosissimi, vuoti e grotteschi anglismi di cui si nutrono certi provincialissimi e sbrigativi replicanti, vestali di riti insulsi di cui si sentono divulgatori.

CONCLUDENDO, CONCLUDENDO...

Infine, la conclusione. Premesso che nei consessi più strutturati è prevista una figura istituzionale di segretario/verbalizzatore, è buona norma che qualcuno si prenda la briga di farlo anche nelle riunioni più informali, uno straccio di verbale. La sua utilità è talmente evidente che non si dovrebbe nemmeno citarla, ma vale la pena ricordare che è utile, se non indispensabile, per controllare a fine riunione se tutti sono a bordo; è utile, se non indispensabile, per fare l'appello degli argomenti all'ordine del giorno e vedere se è sfuggito qualche pezzetto; è utile, se non indispensabile, per assegnare eventuali compiti successivi; è utile, se non indispensabile, per verificare il lavoro svolto; è utile, se non indispensabile per non tornare ripetutamente su decisioni già prese (un difetto frequente, ad esempio, nel mondo associativo); è utile, se non indispensabile, per misurare l'efficacia dell'evento in sé. Il verbale va poi inviato ai partecipanti e deve essere conservato in modo intelligente e consultabile, ai fini di quanto detto sopra.
Ottima cosa, poi, predisporre una verifica sulla riunione, che sia riservata e anonima, e che verta non tanto sui contenuti, quanto sulle modalità (logistica, orgnaizzazione, congruità della convocazione, rispetto dei tempi, efficacia della comunicazione, eccetera). Solo organizzatori pavidi o refrattari alla critica passano tranquillamente sopra a questi ultimi aspetti, nella consapevolezza che – capaci o no, efficaci o no – non hanno la minima intenzione di cambiare una virgola del proprio stile comunicativo o di potere, perchè si piacciono così, o pensano che non esista un'altra strada.
Un limite: ma anche di questo avremo modo di parlare un'altra volta.
Buona Pasqua a tutti!

IL VIRUS E LA SOCIETA' OMBELICALE

Lo spunto, devo dire, non è originale. Il Casellante deve dire grazie al sig. Lorenzo, che ha postato questo concetto in un gruppo su Whatsapp dove si parla di politica. Ma gli argomenti sembrano davvero meritevoli di essere riproposti e condivisi.
La sostanza è questa: l'aspetto che più avvilisce in questi giorni dominati dai fantasmi del Coronavirus, con sessanta milioni di infettivologi, “ho saputo da mio cugggggino...”, mascherine che non si trovano, aperitivi all'Amuchina, ministri che pronunciano Coronavairus” e grandi quantità di fagioli in scatola scomparse dai supermercati, è leggere e ascoltare frasi come: “...ma guarda che il Coronavirus sta risultando letale solo per gli anziani, i malati, le persone deboli, gente che ha già altre patologie”, scritte o declamate con un malcelato senso di sollievo.
Premesso che si tratta del solito luogo comune, che sarà anche statisticamente vero ma che scientificamente è tutto da dimostrare, la piega più umanamente triste di questo assunto risiede nel fatto che le persone malate, gli anziani, i deboli in generale, vengano considerati con sufficienza individui di seconda qualità, quasi degli “inferiori” di fantozziana memoria. Persone che possono anche prenderselo, 'sto virus, perchè tanto sono già spacciate, e quindi – se proprio dobbiamo sacrificare un qualche centinaio di morti sull'altare di questa epidemia – per fortuna che abbiamo questi sottoprodotti umani i quali - volontariamente o no – ricopriranno il ruolo di vittime senza tanti rimpianti da parte di chi invece ha da fare, girare, produrre, creare statistiche, pretendere risultati.
Ecco, questa è l'umanità che potremmo definire “ombelicale”, nel senso che guarda solo ed esclusivamente il proprio privatissimo orticello, e diciamo “ombelico” per evitare trivialità, e se cade un albero si limita a spostarsi. Un'"umanità disumana", che – questa sì – avanza e contagia ogni giorno un numero sempre maggiore di persone, e lascia sul terreno di un continuo imbarbarimento molte più vittime di quante ne faccia un virus che, per pericoloso che sia, tra qualche mese sarà solo un ricordo beffardo, come l'”Aviaria” o la “Suina”, e giù grasse risate...
Chi si sente giovane, sano e forte, e non necessariamente perchè lo è, dovrebbe anzitutto prendersi cura di chi è più debole. Non dovrebbe provare sollievo nel sapere che una data patologia ha effetti deleteri solo su chi è malato, anziano, e in generale più fragile.E tutto questo perchè dietro ad ogni vicenda c'è una persona, una replica – per chi ci crede – del volto di Dio, con i suoi sogni, le sue speranze (ad esempio, quella di guarire e di tornare ad una vita normale); con le sue ansie, le sue preoccupazioni e le sue paura, che sono certamente – e in questo momento più che mai – superiori a quelle di chiunque altro. Persone che dovrebbero essere ancor più difese dalla propria comunità di appartenenza, se questo termine avesse ancora un senso.
Chi ha in dono l'età, l'energia, l'intelligenza e soprattutto la salute dovrebbe avvertire il senso del dovere nei confronti di chi è più debole, e non sentirsi meno preoccupato perchè un virus “quiddam” verosimilmente lo lascerà in pace e si sfogherà solo su qualche sfigato.
Perchè i “deboli” potrebbero essere figli di nostri vicini di casa, o nonni di un amico, vecchi compagni di scuola o di militare. E, un giorno, potremmo essere noi.

ANCORA PENSIERI SPARSI SULLA MERITOCRAZIA. NON CAMBIAMO IDEA: E' UNA PESSIMA COMPAGNA DI STRADA.

Come su ogni linea ferroviaria, anche davanti al Casello i treni passano più e più volte.
Così non sembri fuori luogo tornare su un argomento che, all'evidenza, ha suscitato l'interesse di tanti amici che percorrono spesso i nostri binari.
Stiamo parlando della "meritocrazia", frutto malato di un'epoca che cerca credibilità e legittimazione, anche solo formale, per giustificare prassi talvolta imbarazzanti e quasi sempre contraddittorie rispetto ai principi che vorrebbe assumere.
Da più parti sono pervenuti al "Casello" tentativi più o meno timidi di difesa del concetto e del suo contenuto. "Bisogna stare attenti - si argomenta - perché se non si premia il merito, si va avanti con raccomandazioni, anzianità, ruffianeria".
Come si vede, è un nervo scoperto. Come dice qualcuno, parlarne male è come sputare nell'acquasantiera. Eppure, se si cerca su internet la parola "meritocrazia", la gran parte delle voci ne parlano - opportunamente argomentando - con accezione negativa, e chi ne parla bene illustra un fenomeno che è in contraddizione con se stesso. Dire - come si legge qua e là - che promuovere una cultura della meritocrazia significa premiare le eccellenze e i talenti, oltre che - ¢a va sans dire - il "merito", significa non aver compreso affatto la questione. Abbinare il talento e l'eccellenza (cioè, doni) al merito (ossia un comportamento) vuol dire parlare di due fenomeni che, invece, tendono ad essere l'uno l'antipodo e persino l'antidoto dell'altro.
Come abbiamo già cercato di spiegare, il ragionamento potrebbe anche funzionare se una certa etica forzatamente liberista promuovesse una "talentocrazia", o una "qualitocrazia". La cosiddetta "meritocrazia", invece, è destinata a naufragare nell'oceano dell'accettazione acritica, delle direttive unilaterali, degli "yes men", della dinamica "simpatia/antipatia" che crea - e non supera, come vorrebbero i filo-meritocratici - le cordate, i cerchi magici, le piccole e grandi "corti dei miracoli", le conventicole fatte da saltimbanchi, nani e ballerine. Tre figure scelte non a caso, qualcuno tra i frequentatori del Casello lo sa e sicuramente sorride...
Nessun ambiente ne esce indenne: non la politica, non le aziende, non il variegato mondo delle associazioni.
È quanto accade se si privilegia una visione ombelicale ad una comprensoriale, se si proiettano sugli altri i propri comportamenti, virtuosi e viziosi. Oppure quando si pensa che il talento e le conoscenze non siano il centro, o che addirittura siano un ostacolo, perché chi li possiede mette in crisi un sistema dove non necessariamente ne ha a sua volta la gerarchia - che cerca di replicare i propri comportamenti all'infinito, in quanto postulati come "corretti" a prescindere, perché legittimati da un grado o da un ruolo - e comunque non li vede funzionali ai propri fini.

Ad avviso del Casellante è anzitutto necessario distinguere quattro componenti diverse, che vanno considerate nel giusto ordine: il talento, le conoscenze, le competenze e l'ottenimento dei risultati.
Il talento è un dono, e come tale va trattato. E' una qualità, una caratteristica personale, che – quando presente – reclama attenzione e giusta collocazione.
Le conoscenze si acquisiscono, ma non sono disgiunte dal talento, perché saranno tanto più profonde quanto più legate alle qualità della persona. La conoscenza tende all'eccellenza quando è mossa dal talento, ossia quando queste due componenti appartengono allo stesso campo: se ho un talento particolare, ad esempio so cucinare, mi sarà certamente più congeniale studiare tutti i segreti della cucina. Anzi, lo studio diventerà un profondo piacere, sarà animato dalla passione e produrrà risultati di alto livello.
Le competenze sono l'applicazione concreta in termini operativi della conoscenza, e in qualche modo ne seguono la strada. Si diventa competenti con lo studio, l'applicazione e la pratica, ma in campi lontani dai propri talenti non si raggiungerà l'eccellenza.
Infine, l'ottenimento del risultato: può essere determinato dai tre elementi precedenti, variamente mescolati, ma può anche arrivare per altre vie, non necessariamente “positive”. Il primo esempio che viene in mente è quello del ricattatore, una figura oggi molto frequente anche al di fuori dell'ambito propriamente delinquenziale.
Il vero problema è che talvolta in certe strutture la gestione è in mano a soggetti senza talento e senza conoscenze/competenze. Questo, se abbinato alla caccia al risultato immediato, porta alla perversa convinzione che talento e conoscenze non servano, e – anzi – siano d'ostacolo, perchè il talento, lo abbiamo già certificato, esprime ambizione e richiede attenzione, e le conoscenze postulano tempi più dilatati, che il raggiungimento dell'obiettivo di brevissimo respiro non può concedersi.
Laddove tra le quattro componenti domina la quarta, che dovrebbe semplicemente essere la sintesi, il distillato delle tre precedenti, si creerà sempre un cortocircuito gestionale dal quale sarà complesso uscire.
In definitiva, ci troveremo spesso con personaggi inadeguati al ruolo in posizioni chiave, e i meccanismi di selezione (nonché la trasmissione del potere) saranno in mano a figure spesso incompetenti e carenti nelle sensibilità che oggi, a parole, tanti vorrebbero protagoniste (le "competenze dolci": comprensione, capacità di mediazione, eccetera).
Nella società di oggi, purtroppo, un fenomeno ricorrente in fin troppi ambienti: nessuno si senta escluso, nessuno si senta offeso.

E 626 ROCO: QUARANT'ANNI DEL MODELLO PIU' AMATO DAGLI ITALIANI.

Esattamente quarant'anni fa, a inizio 1980, accadde un evento che divenne un vero e proprio fenomeno imprenditoriale e trasformò per sempre la cultura modellistica italiana, in particolare quella fermodellistica, che ne rappresenta per molti versi l'espressione più compiuta. La casa austriaca Roco mise infatti in commercio il modello della locomotiva elettrica italiana E 626, una delle più famose del parco FS, Costruita in 448 esemplari – un'enormità - fra il 1927 e il 1939, in servizio fino agli anni Novanta, fu la prima locomotiva alimentata con il sistema a corrente continua 3,000 volt, con il quale, da quel momento, vennero attrezzate le nuove elettrificazioni nazionali, diventando lo standard italiano a tutt'oggi imperante (linee AV a parte).

Un mezzo famosissimo e diffusissimo, quindi, che gli appassionati chiedevano a gran voce da tempo. E fu davvero una rivoluzione. Fino a quel momento, infatti, tolte alcune costose e non sempre affidabili creazioni artigianali, il mercato fermodellistico italiano era dominato da due grandi case: la LIMA di Vicenza, all'epoca la più venduta a livello mondiale, che produceva modelli adatti a qualsiasi tasca – era spesso il regalo di Natale più ambito dai bambini - ma con qualche non secondaria approssimazione modellistica; e la Rivarossi, di Como, dai costi decisamente superiori, che aveva a catalogo alcune pregevoli riproduzioni modellistiche di mezzi italiani, ma con un difetto che la rendeva poco compatibile con i modelli di altre marche: il mancato rispetto della canonica scala H0 (1:87), tanto che all'epoca c'era chi parlava di “Scala Rivarossi” per indicare modelli che rispecchiavano all'incirca un rapporto 1:80. La stonatura era del tutto evidente agli occhi dell'osservatore, specie quando si trattava di accostare i modelli della casa comasca a quelli di altri marchi.

Alla fine degli anni settanta, su pressione della famosa rivista “Italmodel” e del suo editore, Enrico Milan, uno dei “profeti” del fermodellismo italiano, l'importatore della casa salisburghese Roco, Faustino Faustini (Gieffecì), ottenne l'attenzione del produttore. Non si trattava di un'impresa semplice: gli appassionati italiani erano (e sono) un mercato numericamente meno appetibile di altre nazioni europee, e il raggiungimento di una massa critica di acquirenti tale da rendere commercialmente appetibile l'operazione non appariva così scontato.

All'epoca la Roco, azienda giovane ed in crescita, si andava affermando nel mercato fermodellistico dell'area germanofona a fianco di alcuni colossi storici, come Marklin e Fleischmann, per le sue riproduzioni dettagliate, in perfetta scala, e dal funzionamento ottimale, a prezzi oggettivamente accessibili. Il tutto, però, a patto di poter “stampare” un numero adeguato di pezzi per ciascun modello.

Appena in Italia circolò la voce di un possibile interessamento di Roco per la E 626 l'ambiente fermodellistico italiano entrò in fibrillazione: fioccarono iniziative, giunsero prenotazioni da tutta Italia, si scrissero articoli e si indissero riunioni e conferenze. Stupita da tanto entusiasmo, Roco decise di mettere in produzione il modello, facendo sapere che avrebbe organizzato una spedizione fotografica in Italia per ritrarre dal vivo questa peraltro bellissima locomotiva.

La gestazione durò più di un anno, ma alla fine il modello uscì, e fu un successo ancora superiore alle aspettative. Bello, curato, in molte versioni diverse, con varianti di coloritura a seconda dell'epoca storica, piacque a tutti, e non solo in Italia. Ne vennero vendute decine di migliaia di copie: all'epoca il casellante era un ragazzino, e con un po' di sacrificio ne acquistò un esemplare, che troneggia ancora nel deposito locomotive del plastico, ma ci fu chi ne acquistò due, tre, anche cinque e più modelli diversi, in tutte le varianti in cui fu prodotto per ambientazione, livrea e tipo di serie costruttiva.

Un boom senza precedenti e inatteso nelle dimensioni, ma anche un'autentica rivoluzione. Da quel momento, travolte dal successo altrui, le case nazionali dovettero adattarsi ai nuovi standard qualitativi. Rivarossi rivide progressivamente il proprio catalogo, e iniziò a riprodurre modelli in scala esatta senza rinunciare alla sua riconosciuta qualità, mentre LIMA saltò in breve tempo dalla dimensione giocattolesca – che ne aveva condizionato in qualche modo la fama – a quella modellistica, puntando sia sulla sua robusta e affidabilissima meccanica (il motore tipo “G” è ancora oggi considerato uno dei migliori mai prodotti), sia soprattutto sui mezzi più recenti in opera sulla rete nazionale, perchè – e fu un'intelligente scelta di marketing – potevano attrarre sia il modellista provetto, sia il principiante e il giovanissimo, trattandosi di mezzi visibili quotidianamente sui binari.

Da allora il mondo fermodellistico è cambiato: gran parte dei mezzi italiani sono stati riprodotti almeno una volta (un tempo la scelta era estremamente limitata), nuove case si sono affacciate alla ribalta, le produzioni sono state in gran parte esternalizzate in Estremo Oriente, modelli dalla meccanica sempre più sofisticata – si pensi solo alla digitalizzazione delle funzioni – permettono movimenti inimmaginabili solo pochi anni fa, mentre il grado di dettaglio è sceso a livelli quasi maniacali, e non necessariamente è un bene, perchè – a meno che non si scelga di lasciare i modelli in bacheca – ogni piccolo dettaglio aggiuntivo va a scapito della robustezza del modello, che sul plastico deve girare e farlo possibilmente a lungo.

Ma niente di tutto ciò sarebbe stato possibile, almeno in Italia, senza un “sensibilizzatore italiano”, Enrico Milan – che per un beffardo scherzo del destino morì improvvisamente pochi mesi prima dell'uscita del modello che aveva tanto sognato -, senza una casa austriaca, Roco, e senza il suo modello di punta, la E 626, il cui quarantesimo compleanno festeggiamo con una serie di immagini tratte dalla rete.

ADDIO GIAMPAOLO, UOMO LIBERO.

Con la scomparsa di Giampaolo Pansa esce di scena uno dei principali protagonisti della letteratura italiana del periodo a cavallo dei due millenni. 
Il suo primo, indiscutibile merito è stato quello di aprire una finestra laica, non di parte, sulla storia dell'immediato dopoguerra vissuta dal lato degli sconfitti. La serie di saggi, inaugurata con "Il sangue dei vinti", ha effettivamente aperto una nuova stagione di riflessione storica, e quello che al Casellante è parso particolarmente significativo è  stato vedere le reazioni scomposte, a volte isteriche (ma sul serio, proprio da "persone disturbate"), di quelli che Pansa ha definito i "gendarmi della memoria", figure meschine la cui unica preoccupazione è che nessuno discuta i dogmi che permettono ad una delle fazioni coinvolte di ricoprire anche il ruolo di arbitro. 
Per certi versi sembra di essere tornati ai tempi delle Brigate Rosse: non potevano essere di sinistra, per cui la regia era da cercare in altri ambienti (le "sedicenti", berciava la vulgata ufficiale). Oggi, essendo impossibile che un uomo di sinistra, e per giunta non certo imbecille, possa anche solo criticare l'antifascismo - in Italia, chissà perché, è più grave che pisciare nell'acquasantiera -, chi lo fa o non è più di sinistra, perché comprato dal nemico (c'è da immaginare che Berlusconi vada bene in qualunque occasione, è come un vestito blu) o anche semplicemente rincoglionito, oppure non lo è mai stato.
Ma Giampaolo Pansa era anzitutto e soprattutto un uomo libero, di pensieri e di parole, e come non ha mai lesinato il suo favore per la sinistra politica italiana, così ha avuto il coraggio di dire, con i suoi scritti, che condannare il fascismo non significa automaticamente condannare le persone, e credere nella democrazia e nella costituzione non implica l'accettazione acritica di qualsiasi comportamento dell'antifascismo, specie quello arrivato fuori tempo massimo. 
Credo non possa essere messo in discussione che Giampaolo Pansa fosse un uomo concretamente di sinistra. Quindi, rispetto al Casellante, un avversario. Ad averne, però, di avversari così: talmente acuti da saper leggere anche le ragioni di chi, al suo occhio, aveva torto. 
Onore a lui. Da lassù, scrollerà spalle sentendo starnazzare le oche dell'odio fine a se stesso.