IL VIRUS E LA SOCIETA' OMBELICALE

Lo spunto, devo dire, non è originale. Il Casellante deve dire grazie al sig. Lorenzo, che ha postato questo concetto in un gruppo su Whatsapp dove si parla di politica. Ma gli argomenti sembrano davvero meritevoli di essere riproposti e condivisi.
La sostanza è questa: l'aspetto che più avvilisce in questi giorni dominati dai fantasmi del Coronavirus, con sessanta milioni di infettivologi, “ho saputo da mio cugggggino...”, mascherine che non si trovano, aperitivi all'Amuchina, ministri che pronunciano Coronavairus” e grandi quantità di fagioli in scatola scomparse dai supermercati, è leggere e ascoltare frasi come: “...ma guarda che il Coronavirus sta risultando letale solo per gli anziani, i malati, le persone deboli, gente che ha già altre patologie”, scritte o declamate con un malcelato senso di sollievo.
Premesso che si tratta del solito luogo comune, che sarà anche statisticamente vero ma che scientificamente è tutto da dimostrare, la piega più umanamente triste di questo assunto risiede nel fatto che le persone malate, gli anziani, i deboli in generale, vengano considerati con sufficienza individui di seconda qualità, quasi degli “inferiori” di fantozziana memoria. Persone che possono anche prenderselo, 'sto virus, perchè tanto sono già spacciate, e quindi – se proprio dobbiamo sacrificare un qualche centinaio di morti sull'altare di questa epidemia – per fortuna che abbiamo questi sottoprodotti umani i quali - volontariamente o no – ricopriranno il ruolo di vittime senza tanti rimpianti da parte di chi invece ha da fare, girare, produrre, creare statistiche, pretendere risultati.
Ecco, questa è l'umanità che potremmo definire “ombelicale”, nel senso che guarda solo ed esclusivamente il proprio privatissimo orticello, e diciamo “ombelico” per evitare trivialità, e se cade un albero si limita a spostarsi. Un'"umanità disumana", che – questa sì – avanza e contagia ogni giorno un numero sempre maggiore di persone, e lascia sul terreno di un continuo imbarbarimento molte più vittime di quante ne faccia un virus che, per pericoloso che sia, tra qualche mese sarà solo un ricordo beffardo, come l'”Aviaria” o la “Suina”, e giù grasse risate...
Chi si sente giovane, sano e forte, e non necessariamente perchè lo è, dovrebbe anzitutto prendersi cura di chi è più debole. Non dovrebbe provare sollievo nel sapere che una data patologia ha effetti deleteri solo su chi è malato, anziano, e in generale più fragile.E tutto questo perchè dietro ad ogni vicenda c'è una persona, una replica – per chi ci crede – del volto di Dio, con i suoi sogni, le sue speranze (ad esempio, quella di guarire e di tornare ad una vita normale); con le sue ansie, le sue preoccupazioni e le sue paura, che sono certamente – e in questo momento più che mai – superiori a quelle di chiunque altro. Persone che dovrebbero essere ancor più difese dalla propria comunità di appartenenza, se questo termine avesse ancora un senso.
Chi ha in dono l'età, l'energia, l'intelligenza e soprattutto la salute dovrebbe avvertire il senso del dovere nei confronti di chi è più debole, e non sentirsi meno preoccupato perchè un virus “quiddam” verosimilmente lo lascerà in pace e si sfogherà solo su qualche sfigato.
Perchè i “deboli” potrebbero essere figli di nostri vicini di casa, o nonni di un amico, vecchi compagni di scuola o di militare. E, un giorno, potremmo essere noi.

ANCORA PENSIERI SPARSI SULLA MERITOCRAZIA. NON CAMBIAMO IDEA: E' UNA PESSIMA COMPAGNA DI STRADA.

Come su ogni linea ferroviaria, anche davanti al Casello i treni passano più e più volte.
Così non sembri fuori luogo tornare su un argomento che, all'evidenza, ha suscitato l'interesse di tanti amici che percorrono spesso i nostri binari.
Stiamo parlando della "meritocrazia", frutto malato di un'epoca che cerca credibilità e legittimazione, anche solo formale, per giustificare prassi talvolta imbarazzanti e quasi sempre contraddittorie rispetto ai principi che vorrebbe assumere.
Da più parti sono pervenuti al "Casello" tentativi più o meno timidi di difesa del concetto e del suo contenuto. "Bisogna stare attenti - si argomenta - perché se non si premia il merito, si va avanti con raccomandazioni, anzianità, ruffianeria".
Come si vede, è un nervo scoperto. Come dice qualcuno, parlarne male è come sputare nell'acquasantiera. Eppure, se si cerca su internet la parola "meritocrazia", la gran parte delle voci ne parlano - opportunamente argomentando - con accezione negativa, e chi ne parla bene illustra un fenomeno che è in contraddizione con se stesso. Dire - come si legge qua e là - che promuovere una cultura della meritocrazia significa premiare le eccellenze e i talenti, oltre che - ¢a va sans dire - il "merito", significa non aver compreso affatto la questione. Abbinare il talento e l'eccellenza (cioè, doni) al merito (ossia un comportamento) vuol dire parlare di due fenomeni che, invece, tendono ad essere l'uno l'antipodo e persino l'antidoto dell'altro.
Come abbiamo già cercato di spiegare, il ragionamento potrebbe anche funzionare se una certa etica forzatamente liberista promuovesse una "talentocrazia", o una "qualitocrazia". La cosiddetta "meritocrazia", invece, è destinata a naufragare nell'oceano dell'accettazione acritica, delle direttive unilaterali, degli "yes men", della dinamica "simpatia/antipatia" che crea - e non supera, come vorrebbero i filo-meritocratici - le cordate, i cerchi magici, le piccole e grandi "corti dei miracoli", le conventicole fatte da saltimbanchi, nani e ballerine. Tre figure scelte non a caso, qualcuno tra i frequentatori del Casello lo sa e sicuramente sorride...
Nessun ambiente ne esce indenne: non la politica, non le aziende, non il variegato mondo delle associazioni.
È quanto accade se si privilegia una visione ombelicale ad una comprensoriale, se si proiettano sugli altri i propri comportamenti, virtuosi e viziosi. Oppure quando si pensa che il talento e le conoscenze non siano il centro, o che addirittura siano un ostacolo, perché chi li possiede mette in crisi un sistema dove non necessariamente ne ha a sua volta la gerarchia - che cerca di replicare i propri comportamenti all'infinito, in quanto postulati come "corretti" a prescindere, perché legittimati da un grado o da un ruolo - e comunque non li vede funzionali ai propri fini.

Ad avviso del Casellante è anzitutto necessario distinguere quattro componenti diverse, che vanno considerate nel giusto ordine: il talento, le conoscenze, le competenze e l'ottenimento dei risultati.
Il talento è un dono, e come tale va trattato. E' una qualità, una caratteristica personale, che – quando presente – reclama attenzione e giusta collocazione.
Le conoscenze si acquisiscono, ma non sono disgiunte dal talento, perché saranno tanto più profonde quanto più legate alle qualità della persona. La conoscenza tende all'eccellenza quando è mossa dal talento, ossia quando queste due componenti appartengono allo stesso campo: se ho un talento particolare, ad esempio so cucinare, mi sarà certamente più congeniale studiare tutti i segreti della cucina. Anzi, lo studio diventerà un profondo piacere, sarà animato dalla passione e produrrà risultati di alto livello.
Le competenze sono l'applicazione concreta in termini operativi della conoscenza, e in qualche modo ne seguono la strada. Si diventa competenti con lo studio, l'applicazione e la pratica, ma in campi lontani dai propri talenti non si raggiungerà l'eccellenza.
Infine, l'ottenimento del risultato: può essere determinato dai tre elementi precedenti, variamente mescolati, ma può anche arrivare per altre vie, non necessariamente “positive”. Il primo esempio che viene in mente è quello del ricattatore, una figura oggi molto frequente anche al di fuori dell'ambito propriamente delinquenziale.
Il vero problema è che talvolta in certe strutture la gestione è in mano a soggetti senza talento e senza conoscenze/competenze. Questo, se abbinato alla caccia al risultato immediato, porta alla perversa convinzione che talento e conoscenze non servano, e – anzi – siano d'ostacolo, perchè il talento, lo abbiamo già certificato, esprime ambizione e richiede attenzione, e le conoscenze postulano tempi più dilatati, che il raggiungimento dell'obiettivo di brevissimo respiro non può concedersi.
Laddove tra le quattro componenti domina la quarta, che dovrebbe semplicemente essere la sintesi, il distillato delle tre precedenti, si creerà sempre un cortocircuito gestionale dal quale sarà complesso uscire.
In definitiva, ci troveremo spesso con personaggi inadeguati al ruolo in posizioni chiave, e i meccanismi di selezione (nonché la trasmissione del potere) saranno in mano a figure spesso incompetenti e carenti nelle sensibilità che oggi, a parole, tanti vorrebbero protagoniste (le "competenze dolci": comprensione, capacità di mediazione, eccetera).
Nella società di oggi, purtroppo, un fenomeno ricorrente in fin troppi ambienti: nessuno si senta escluso, nessuno si senta offeso.