E MAGNAMOCI 'STO MAGNATE!
Gli Stati Uniti hanno eletto nei giorni
scorsi il loro nuovo Presidente, nella figura del magnate Donald
Trump. Una figura discussa, e discutibile, per molte diverse ragioni,
alcune anche condivisibili.
Il casellante non intende entrare nel
merito della questione: anzitutto lo hanno già fatto in tanti,
dentro e fuori gli USA. Ce ne cresce, direi. In secondo luogo, per
una valutazione del merito sarebbero necessari elementi che – allo
stato (anzi, agli Stati: Uniti) – non abbiamo, e chi dice di averli
mente sapendo di mentire.
Come sempre, l’attenzione si
concentra invece sulle reazioni che tale elezione ha suscitato.
Proteste, indignazioni, preoccupazioni. Tutte dalle diverse sinistre
del mondo, e in rari casi anche da altre provenienze, fino a sfociare
in alcuni casi in autentiche proteste di piazza.
Se ne ricavano due impressioni nette.
Anzi, tre. La prima è che le sinistre continuino a rivendicare una
certa superiorità morale su tutti gli avversari. Se vincono gli
altri, vince sempre il peggiore. Su quale piano? Quello etico e
ideale. Chi lo dice? Loro. Un arbitro che gioca. Mah.
Le seconda è che sembra che la
democrazia funzioni se il risultato è consono a quanto desiderato da
lorsignori. Altrimenti si è inceppata da qualche parte. Come noto,
al “Casello” non siamo tra coloro che idealizzano la democrazia:
è un metodo, uno schema di lavoro, una modalità partecipativa, ma
non è né un valore, né un disvalore. Il valore, semmai, è la
partecipazione, che può configurarsi in molti modi, uno dei quali è
appunto la democrazia. Ma se si decide di usarla, bisogna essere
disposti ad accettarne tutte le conseguenze, e fra queste che vinca
qualcun altro, senza far seguire gli esiti da predicozzi
moraleggianti sul fatto che “la gente non ha capito” o sul fatto
che i voti vadano pesati intrinsecamente, invece che contati.
L’ultima, più cronistica che di
scenario, è che ogni volta che vince qualcun altro il progressismo
mondiale alza barriere. Proteste di piazza, barricate, rifiuto di
collaborare, a volte anche di peggio.
Sullo sfondo rimane una domanda: perché
non rispettare un po’ le scelte elettorali della gente, che compra
il prodotto che in quel momento gli piace di più, a prescindere
dalle ragioni che hanno portato a questo effetto?
LA COMODA NOSTALGIA DEL NON CREDENTE
Non sono mai stato un grande estimatore di Dario Fo. Mi
rendo perfettamente conto del fatto che sia stato un eccellente attore, un
brillante commediografo, e sicuramente un uomo di cultura.
Temo tuttavia che le sue appartenenze ne abbiano
condizionato l’arte al punto da renderla molto simile a quella delle ideologie
che ha cercato – nella sua seconda vita – di combattere con foga.
Non posso dimenticare che, nei primi anni settanta, lui e la
moglie abbiano preso acriticamente le difese di colui che si era reso responsabile
di un assassinio politico inutile e insensato, quello del giovane Ugo
Venturini, considerato la prima vittima degli “Anni di piombo”. Il “Soccorso
rosso”, del quale facevano orgogliosamente parte, difendeva “a prescindere”,
cosa che per una persona di cultura è di per sé un limite.
Ma non è di questo che il Casellante intende parlare: onore
alla memoria di un artista discusso e discutibile, un altro pezzo di storia che
se ne va.
Sono invece rimasto perplesso nell’ascoltare le parole del
figlio Jacopo alla cerimonia, rigorosamente laica, tenutasi per dare l’estremo
saluto al Premio Nobel per la Letteratura.
Qualcosa che suonava più o meno: “Siamo atei, ma io lo
immagino lì, da qualche parte, con la mamma (Franca Rame, ndr), che si stanno
facendo quattro risate”.
Ma anche qualcosa che dimostra, una volta di più, la nostalgia
per una dimensione ultraterrena che sa tanto di vuoto.
Se sei ateo in modo lineare, finisce tutto. Dove potrebbero
mai essere, e perché, i due famosi “de cuius” a farsi quattro risate?
L’impressione è che chi ha sempre considerato la religione
come “oppio dei popoli” finisca per provare un ancora più intenso desiderio di
drogarsi, non trovando risposte convincenti all’interrogativo estremo: cosa c’è
di là?
Quella domanda a cui la morte, specie di una persona cara o
nota, mette tutti davanti. Trovo un po’ troppo comodo, però, respingere l’idea
di un Dio in vita e poi cercare l’aldilà in sua assenza.
DERBY DELLA LANTERNA: PERCHE' IL DORIA HA MERITATO.
Derby ne ho visti tanti, ma tanti
tanti. E ogni volta è un'emozione nuova e indescrivibile, che ti fa
battere il cuore e fremere, esultanza e depressione, in un cocktail
micidiale per le coronarie che gli anni trascorsi sicuramente non
irrobustiscono.
Lo ha vinto la Sampdoria, questo derby.
Il 113. La macchina di Topolino e il numero della Polizia. Ho sentito
tante opinioni: tecniche, tifose, acide e gioiose, simpatiche e
strafottenti, rancorose e allegre.
Non voglio aggiungere la mia. Però,
come mi ha suggerito qualcuno, se avete il tempo di capire come e
perchè la Sampdoria – il mio Doria – abbia vinto con merito una
partita difficile e ricca di emozioni e colpi di scena, vi rimando
all'analisi tecnica che trovate su un sito che ho trovato
interessantissimo. Www.ultimouomo.com

Sono certo che anche tanti amici
dell'altra sponda si troveranno d'accordo. Per una sera mi sono
riconciliato con la professione di allenatore. Se fatta bene, come
ogni mestiere, è un'arte.
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Siamo tutti sportivi
JE SUIS CHARLIE?
Ho voluto riflettere un po’ prima di
esprimermi sulla ormai famosa – famigerata – vignetta di Charlie
Hebdo sul terremoto che ha sconvolto le nostre regioni centrali.
Ho letto qualche parere in giro, e
soprattutto ho cercato di non farmi condizionare da nessuno
stereotipo (sono francesi e quindi spocchiosi, siamo italiani e
quindi boh), e se devo essere sincero non sono riuscito a farmi
un’opinione netta e precisa. Mi limito a qualche considerazione
sparsa, frammentata più che frammentaria, e soprattutto
rigorosamente personale.
La prima è che la vignetta è di
pessimo gusto. Non fa ridere, nemmeno un appassionato di umorismo
macabro. Tra l’altro, avendo la fama di originalissimi
dissacratori, gli autori si smentiscono in modo clamoroso, proponendo
quanto di più ritrito e ricicciato possa esistere in materia di
stereotipi: la pasta, la “via italiana al sisma”, eccetera. Non
mi offende come italiano: mi delude – a dir poco - come lettore.
Ironizzare su un sisma, cioè un evento
naturale che semina morte e distruzione, è poi una cosa ben diversa
su provare a illustrare a matita – che so? – gli effetti di un
bombardamento. Anche solo sostenere la tesi delle responsabilità
umane (che ci possono anche essere, ma indirette) in un terremoto, ad
esempio perché le cose si fanno “all’italiana”, cioè male, è
un’idea pessima, che non credo rappresenti il pensiero di nessun
altro che non sia l’autore.
Da ultimo, però, mi chiedo dove siano
finiti tutti i sostenitori della libertà di stampa e della
democrazia, che avevano gridato all’orrore quando la redazione del
giornale francese era stato oggetto del vile e intollerante attentato
terroristico che tutti ben ricordiamo.
La libertà, e il pensiero “liberale”
che dovrebbe esserne insieme causa ed effetto, non può valere solo
se chi scrive o parla se la prende con qualcun altro. La libertà va
difesa a prescindere, anche quando produce cessi in forma di vignetta
come quello sul terremoto.
Liberi loro di pubblicare. Liberi noi
di dire che quanto pubblicato non ci è piaciuto per niente. Ma
liberi.
CAPRINO DI CAPRA
A volte si
rimane perplessi davanti a certe epifanie del legislatore italiano,
in molti settori. A volte si rimane ancora più perplessi per quanto
le bizzarrie non scuotano in nessun modo l’opinione pubblica.
Prendo un
esempio banale ma concreto: il formaggio “caprino”.
Credo che - per
come viene presentato, e ragionando in astratto - a nessuno venga in
mente che questo tipo di formaggio, a pasta molle e cremosa e
generalmente di forma cilindrica, possa essere fatto con latte che
non sia di capra. A nessuno, ma è una mia supposizione, verrebbe in
mente di chiamare “pecorino” un formaggio che non sia fatto con
latte di pecora, e sono molte le eccellenze italiane che si
riconoscono in questa denominazione, in tante regioni.
Resto quindi
interdetto quando mi capita di vedere esposto un formaggio che reca
con sé l’etichetta che si vede in fotografia. Di primo acchito mi
sembra una precisazione inutile, una ridondanza sciocca, quasi come
“entro e non oltre” che tanti inseriscono nei loro bandi e
comunicati come a voler aggiungere qualcosa di ulteriore (non è
vero: se è entro, non può essere oltre).
Poi mi documento
e scopro… scopro che inizialmente era proprio così, cioè come
dovrebbe essere: il “caprino” era un formaggio fatto con latte di
capra. Poi la prassi industriale ha portato ad aggiungere prima e a
sostituire completamente poi il latte di capra con quello vaccino,
snaturando il prodotto, e oggi – per la legislazione italiana –
se il caprino NON è di capra non è necessario aggiungere altro,
mentre se è di capra questa caratteristica va specificamente
aggiunta.
Per capirci, è
come se “italiano” potesse essere chiunque, ma solo se lo si
fosse davvero sarebbe necessario aggiungere “italiano d’Italia”.
Obiezione
possibile: anche la mozzarella nasce “di bufala”, ma poi viene
prodotta industrialmente con latte vaccino. Respinta: nel nome
“mozzarella” non c’è nessun richiamo alle bufale. Bufale che
invece ci vengono somministrate (per legge, of course) nella
produzione di formaggi cosiddetti “caprini”...
Nessuno ci fa
caso, ovviamente. Ci sono problemi ben più seri. Però chiudo con
due considerazioni, una dietetica e l’altra economica.
La prima è che
il formaggio caprino è noto per essere in sostanza più magro del
formaggio vaccino e molto più magro di quello di pecora, fino alla
leggenda metropolitana secondo cui sarebbe addirittura privo di
colesterolo (è falso, purtroppo). L’ingannevole sua provenienza
non è quindi solo una questione di etichetta.
La seconda: ci
preoccupiamo tantissimo di quanto il “made in Italy” venga
clonato e taroccato in giro per il mondo, specie in estremo Oriente,
e di quanto danno tutto ciò crei alla nostra bilancia dei pagamenti
agroalimentare. E se iniziassimo a dare il buon esempio?
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