10 FEBBRAIO: NOI NON SCORDIAMO

Cosa vuol dire, oggi, essere “di destra”? Come si può, in questi tempi di sfumature e di miscugli, dire “qualcosa di destra”?
C’è chi citò, in tempi anche recenti, la parola “gerarchia”. Qualcun altro propone “merito”. Poi c’è chi fa riferimento ad “autorità”, oppure a “legge ed ordine”, ed infine, ancora, a “Dio, Patria e Famiglia”.
Si può essere d’accordo con queste formulazioni, oppure no. Ma sulla testimonianza concreta, sull’appartenenza, su un’essenza che addirittura possa andare al di là della militanza in un partito o in uno schieramento – si può essere “destri” dentro e votare a sinistra – io qualche idea me la sono fatta.
Di destra, ad esempio, è costruire un futuro tenendo i piedi ben piantati nella propria storia. Guardare dove si va sapendo bene da dove si viene.
Dunque. Una delle cose che senza la destra attuale – con tutti i suoi difetti – non sarebbe in concreto mai accaduta è l’istituzione della Giornata del Ricordo.
Il 10 febbraio, come è ormai noto, in tutta Italia vengono ricordate le migliaia di persone rapite, torturate, trucidate, fatte sparire presso i nostri confini orientali dalla soldataglia comunista di Tito, con la compartecipazione e la complicità – questa è grave – persino di tanti rinnegati italiani (la peggiore feccia, coloro che anteposero la loro ideologia – e di norma il loro tornaconto - alla Patria), ed il triste esodo di migliaia di giuliani, istriani, fiumani e dalmati, scacciati dalle loro terre – terre appartenenti alla "gens italica" da oltre duemila anni – e che non potevano accettare di restare sotto l’opprimente giogo della peggiore delle ideologie possibili posta nelle mani di genti di sensibilità, cultura e civiltà così radicalmente diverse.
Per decenni, dal ghetto in cui era stata relegata, la destra aveva contribuito quasi da sola a tenere accesa la flebile fiammella della memoria su fatti che la sinistra - per autodifesa - ed il centro - per viscido opportunismo - preferivano dimenticare.
Quando il clima finalmente cambiò, e si potè parlare di foibe e di crimini del comunismo senza timore di essere aggrediti (e non solo a parole), tanti italiani vennero a contatto con una realtà della quale la storiografia ufficiale - da noi come da nessun'altra parte asservita non già al potere, quanto alla logica culturale dominante, cioè quella marxista - non aveva mai dato contezza.
Oggi la "Giornata del Ricordo" è un punto fermo del nostro calendario civile, al pari di altre memorie importanti. E molti sono coloro che, goffamente, hanno cercato di recuperare terreno, affrettandosi con lo zelo del convertito alla foiba di Basovizza o sulle terze pagine dei giornali. E pochi sono rimasti, invece, e per fortuna, i disonesti di mente e di cuore che sostengono le indifendibili tesi degli infoibatori.
Una cosa ho imparato, studiando a fondo le vicende del nostro confine orientale: Junio Valerio Borghese - una figura storica importante che andrebbe studiata in modo approfondito, senza preconcetti - aveva ragione quando diceva che, alla fine della guerra, l'italianità di Roma, Firenze e Venezia non sarebbe mai stata messa in discussione, ma quella di Trieste, Pola, Fiume e Zara sì. Proprio quello che puntualmente avvenne. Ma è anche grazie al nostro ricordo, e a quello di tutti gli esuli di allora e dei loro discendenti, e persino di quanti scelsero - non importa per quale motivo - di restare, che quelle terre sono ancora e sempre rimarranno italiane, chiunque possa abitarle e governarle.

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