VELTRONI, O IL TRAMONTO DELL'UTOPIA

Le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del PD, susseguenti all’ennesima batosta elettorale del suo partito – questa volta, non va trascurato, sotto la specie di centro sinistra al completo, costituiscono senza dubbio l’evento politico più importante di questo scorcio iniziale del 2009.
La precoce uscita di scena dell’uomo al quale, più d’ogni altro, i progressisti nostrani guardavano come al traghettatore verso un polo riformista moderno, capace di scrostarsi di dosso il maleodorante pattume comunista e di dialogare con il ceto medio e tutte le componenti migliori del Paese apre – per quel popolo, che non è il nostro – una fase di ancor più profondo disorientamento.
Si è svampato il fuoriclasse, che è un po’ come dire: si è dimesso Valentino Rossi. Chi arriva dopo, a partire dal neo segretario “pro tempore” Dario Franceschini, è – salvo prova del contrario, ma ne dubitiamo – una “diminutio”. E questo non sono certo io a dirlo: è il pensiero diffuso della gente d’area riformista e della stessa base del PD, come l'assise che ha nominato il nuovo leader ha ampiamente dimostrato tra assenze, veleni, richiesta di nuove primarie (cioè: interpellate la base, non chiudiamola con una camarilla di potere), distinguo e posizioni polemiche più o meno marcate. La stessa gente che guardava al Lombricone già quando l’imbarazzo per avere un leader cialtronesco come il Mortadella montava a mille.
A questo punto s’impongono due riflessioni. La prima: con Uòlter va con tutta probabilità in archivio, almeno per ora, quel tentativo di sintesi tra utopia post sessantottina e cattolicesimo sociale che avrebbe dovuto unire le forze riformiste. Un’ipotesi, tra l’altro, che aveva già da sola pochissime possibilità di riuscita: l’insofferenza tra le due principali componenti del nuovo soggetto andava appalesandosi con sempre maggiore virulenza, giacchè – gratta gratta – gli ex PCI-PDS-DS sono forse ex nei confronti della peggiore delle ideologie possibili, ma non lo sono nei confronti del metodo. Da qui l’interpretazione, tutta post comunista, del PD come prosecuzione dell’esperienza storica della sinistra risvegliatasi all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Un’interpretazione vissuta con disagio in casa ex democristiana.
La seconda: è verosimile che ci si stia avvicinando alla resa dei conti fra le due macroaree di quel “melting pot” politico rappresentato dal PD. Da un lato l’ala più legata alla tradizione, anche recente (cioè ulivista), che vede nell’unione di tutte le forze della sinistra l’unica strategia per cacciare l’usurpatore del trono. E pazienza se poi un simile cartello non riuscisse a governare, stretto fra Che Guevara e Matteo Colaninno. Un film, pessimo, già visto almeno due volte. Dall’altro tutti quelli che amano stare seduti sulla punta sinistra del centro, a loro volta scissi in neo yuppies (antipatici, arroganti, presuntuosi, tutti slogan e sostenibilità ma con un forte odore di zucca vuota, l’archetipo è il sempre sgradevole Enrico Letta) e calderoniani (vale a dire quelli che amano il contenitore più che il contenuto e che rimpiangono i cari, vecchi partiti-mamma, DC e PCI).
Un primo vincitore c’è già: Dario Franceschini. Il quale, per la serie “Cominciamo bene”, ha subito mandato in soffitta il buonismo veltroniano e si è subito accodato a Di Pietro scagliando livorose accuse di illegittimità e di anticostituzionalità al Governo (patetico il giuramento sulla Costituzione, in nome di un qualcosa – l’antifascismo – che invece andrebbe mandato in soffitta per sempre, con le logiche di divisione che si trascina dietro), che – va ribadito – è per questi poveretti un nemico, non un avversario. Una mossa banale ma di una certa efficacia, visto che essere “contro” per lo meno compatta lo schieramento di fronte al rivale. Dopodiché, in termini elettorali, tutto ciò non porta un sol voto in più sottratto alla controparte, ma che importa?
Credo non si possa ignorare, tuttavia, un aspetto molto importante della vicenda: il ruolo del Centro destra. A differenza di ogni altro ciclo politico precedente, dopo essere tornato alla guida dell’Italia lo schieramento guidato da Silvio Berlusconi ha vinto – anzi, ha stravinto – tutte le controprove amministrative successive. Accelerando, di fatto, la resa dei conti fra i suoi avversari. E questo perché, con tutta evidenza, la gente non vuole sempre, per forza, malignamente, punire chi governa. Punisce chi governa male, e premia chi governa bene. Trema, gerundio iettatore: il prossimo sei tu.

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