UN FEDELE POLIGAMO, IL NUOVO ROMANZO DI ALESSANDRO CONSONNI

Carissimo Casellante, carissimi Viaggiatori, è da un po' di tempo che penso di scrivere sul blog, ma non ho mai avuto argomenti che ritenessi degni dell'interesse di un gruppo eterogeneo di persone, come penso siate Voi. Oggi non posso esimermi dal segnalarVi un libro. E' "Un fedele poligamo", opera prima di un carissimo amico monzese, il Maestro Alessandro Consonni. Chi è costui? e perchè dici "Maestro"? Per chi non fosse un esperto d'arte, rispondo subito: Alessandro Consonni è un pittore Monzese D.O.C., classe 1954. La sua fama ha varcato i confini dell'Europa da tempo ed è molto quotato in America ed in Estremo Oriente. Definirlo pittore è veramente citare soltanto una faccia del poliedrico "personaggio", che ho il piacere di annoverare nel numero dei miei "amici-amici" a Monza, la città che mi ha rapito da Genova 5 anni fa, il giorno in cui "ho piggiou quello Sacramento" (quando mi sono sposata - con un indigeno - n.d.r) . Direi che l'espressione più che più si adatta ad Alessandro Consonni è grande comunicatore. La prima volta che ho il piacere di incontrarlo è durante l'esposizione dei suoi quadri, due anni fa, in occasione della festa del Co-Patrono Monzese, San Gerardo (l'altro è .. San Giovanni Battista, come noi genovesi, che però abbiamo più reliquie degli autoctoni!). Alessandro è una persona molto brillante, simpatica, incontenibile, che comprende empaticamente l’interlocutore, chiunque esso sia; ne sa cogliere il suo punto di vista, senza assumerlo come proprio, restando fedele a se stesso, avendo, come dice Lui medesimo, "ormai allentato i freni inibitori". La sua pittura è come Lui, energica, unica del suo genere. La tecnica “olio”, utilizzata in grandi spessori, con la spatola, dà la suggestione dell'alto e basso rilievo. E' pittura informale, che offre diverse interpretazioni all'occhio più o meno esperto. Mi piace talmente tanto che decido di investire nell'acquisto della tela "Fragranza di brughiera", che fa mostra di se sulla parete della nostra camera da letto, con i suoi papaveri rosso fuoco e le sue nuvole che sembrano cambiare forma. Mi fermo qui. Ammetto di essere una profana e so benissimo che la brutta figura è dietro l'angolo ... Lo scorso settembre Alessandro preannuncia l'uscita del suo primo romanzo. "Però..."- penso - "sono curiosa: chissà come se la caverà con la penna?" Il Sabato 10 Ottobre io e mio marito Andrea andiamo alla Galleria d'arte "Stanza delle forme" a Monza e ascoltiamo, tra una battuta e l'altra, alcuni accenni di Alessandro al contenuto del libro. Si tratta di un romanzo ambientato a Mirandolo, sullo sfondo si staglia il Monte Rosa. E' la storia di George, uno psicologo di madre inglese (da qui il nome anglofono) che capisce, venendo casualmente in soccorso di una donna conosciuta in aereo, il potenziale della missione di aiutare i malcapitati ad affrontare la "volofobia" e ne fa un vero e proprio mestiere. Nell'arco di una vita George, incontra e ama con autentica passione e "fedelmente" due donne. Mi do di nuovo uno stop. E' abbastanza per stuzzicare la Vostra curiosità? Finisco il romanzo in neanche 24 ore, tanto è piacevole e coinvolgente la lettura. Scrivo a mezzanotte di Domenica 11 ottobre la mia recensione ad Alessandro. " Complimenti per le descrizioni, soprattutto dei colori, quasi maniacali. Mi sembrava di vedere un film su di uno schermo ad altissima definizione. La storia di George, mi ha intenerito, appassionato, e fatto sorridere". Volete sapere l'ultima uscita del Maestro? Trovo in libreria, sulla fascetta gialla che gira intorno alla copertina, sul retro, la mia recensione! Pensate: compare ancor prima di quella di Roberto Aldo Mangiaterra (il genovesissimo Mago delle Fiabe). Lui sì che ha pieno titolo per fare queste cose!!! A quanto pare, io me la cavicchio... Buona lettura!

Alessandra Dufour alessandra.dufour@gmail.com

P.S.: la fascetta gialla scomparirà presto dalle librerie, ma, lo so , le magie durano poco: Cenerentola docet!

IL SEMAFORO, SIMBOLO DELLA MOBILITA' GENOVESE

La mobilità genovese degli ultimi decenni, pur spesso stravolta, presenta un filo conduttore che unisce tutte le piccole e grandi rivoluzioni: l’inefficacia.
Tralasciando l’aspetto che pur mi è più caro e noto, il trasporto pubblico, che a reggere l’assessorato fosse il bizzarro Villa o il fumoso Merella, per la città cambiava poco, e comunque in peggio. La casalinga di Voghera non avrebbe procurato certo danni peggiori.
L’emblema di queste controgestioni? Il semaforo. Sì, d’accordo, le strisce gialle; certo, le zone blu; sicuro, anche i sensi unici rivoluzionati a babbo, o il rifacimento delle coperture del Bisagno che “non durerà più di 24 mesi”, per dirla con lo sfortunato precedente inquilino del Matitone; ma tutto ciò è niente rispetto all’epidemia di semafori – talvolta inutili, spesso dannosi – che ha colpito la città, in particolare nel corso della nefasta gestione Merella.
Spero per lui - l’assessore al traffico più inviso di sempre - che ci abbia almeno guadagnato qualcosa; che so, dalla ditta fornitrice. Giusto per dire che in città qualcuno ha tratto beneficio dall’assurda politica del “più infastidisco l’utente della strada, più faccio l’interesse della viabilità”.
Così, mentre tutto il mondo elimina i semafori, a Genova li decuplichiamo. Dove non ci sono mai stati (Piazza Portello); dove c’è un attraversamento pedonale a richiesta che rompe le scatole, specie nelle ore di punta (qua e là in Corso Europa), dove c’è un incrocio con una via sempre deserta, dove c’è l’uscita dei mezzi di una qualsiasi entità comunale, provinciale, regionale o statale…
Ovunque, tranne – sembra una banalità - dove servono: ad esempio alla confluenza di via Capolungo con l’Aurelia (via Donato Somma), quasi a Bogliasco, dove persino gli autobus svoltano tra due curve cieche.
Il risultato? Gli automobilisti non rinunciano all’auto, però s’infuriano e le code si esasperano. Quando invece è evidente che, per l’inquinamento e la scorrevolezza del traffico, è molto meglio che la fiumana di mezzi che popola le nostre strade al mattino viaggi senza troppe soste. Ne guadagnerebbero i mezzi pubblici (che, pure, non brillano per efficienza), ostaggio tanto dell’indisciplina degli utenti privati – che non sto difendendo: basta pensare all’odioso ricorso al posteggio in seconda fila – quanto dell’intasamento delle strade, spesso indotto da semafori crudeli posti ad incroci che invocherebbero soluzioni alternative.
Il futuro non sembra portare in dote un miglioramento: le strade sono quelle, e le risorse – si sa – scarseggiano. Se poi quelle poche le spendiamo in semafori…

PICCOLI TROMBONI CRESCONO

Uno dei più gravi fardelli che la cultura italiana (le altre non le conosco a sufficienza) si porta dietro da sempre, e comunque con gran profusione di energie nel dopoguerra, è il trombonismo.
Si tratta di quella sindrome per la quale solo gli eletti (che si autoeleggono) ed i chiamati (che si chiamano a vicenda) possono pontificare su qualunque cosa e fare opinione. La loro posizione di eminenti tromboni li rende ad un tempo custodi e creatori della verità, nonché giudici di altrui tesi. Per capirci, come se le partecipanti a Miss Italia oltre a concorrere valutassero da giurate le avversarie.
Ne abbiamo visti: personalmente, limitandomi al campo socio/politico, ho sempre apprezzato particolarmente poco Norberto Bobbio, sicuramente persona seria e degna ma altrettanto certamente noto e squillante trombone.
Guai ad avversare le tesi di costoro: la difesa corporativa scatta immediata, respingendo con veemenza l’intrusione. Difficile, quasi impossibile farsi accettare, a meno che non si venga cooptati.
L’amico Stefano, uno dei più assidui frequentatori del Casello fin dalla prima ora, mi fa notare lo spiegamento di… trombe (e tromboni) a celebrare la dipartita di Alda Merini, irrequieta ed effervescente poetessa milanese per la quale, subitanei, sono partiti i coccodrilli.
La cosa bizzarra è rilevare che, assurti a tromboni (in erba), si sono mossi alla causa personaggi di certo distanti dall’immaginifica scrittrice dei Navigli (cito, tra gli altri, Jovanotti), per i quali non riesco ad immaginare un’assiduità con i versi di Alda Merini ed eventualmente quella capacità interpretativa che richiede, come minimo, l’ampio possesso del lirismo della defunta poetessa. 50.000 (cinquantamila!) iscritti al neonato Gruppo Facebook intitolato ad Alda Merini: quante poesie avranno letto in media costoro? Per non dire: quante ne avranno comprese? Quanti ne conoscevano esistenza ed opere prima che il circo mediatico ne descrivesse la parabola, fatta di versi, di ricoveri, di salite e di discese?
Però riempirsene la bocca – specie adesso che, poveretta!, non può più difendersi – fa tanto introdotto. Il primo passo nella scalata al titolo di trombone.

IL MURO DI BERLINO, VENT'ANNI FA

Io me lo ricordo bene, il Muro. Quello che è crollato, implodendo nelle sue contraddizioni, una notte di novembre di venti anni fa. Quello che divideva due universi, due culture, due modi di recitare la commedia della vita, due poli magnetici che – spezzando la calamita – si ritrovano in ciascun moncone, il polo positivo e quello negativo.
Io me lo ricordo, quel Muro, perché ero e sono tra quelli che, nel loro raffronto, hanno schifato gli anni settanta ed amato gli anni ottanta: tutto più bello, più colorato, più saporito, dalla moda alla musica, dal cinema all’amore, giù giù fino al mangiare ed al bere.
Quel muro che crollava a Berlino correva anche tra di noi, e divideva in modo non sanabile chi stava di qua da chi stava di là. Chi sapeva che di qua c’era il migliore dei mondi possibili (con tutte le sue imperfezioni), che si era liberi, ci si poteva esprimere sempre e su tutto, e chi ha sempre pensato che avessero ragione loro, dall’altra parte, perché l’idea era quella giusta, e ad essere sbagliata era l’applicazione. Illusioni!
Io me lo ricordo bene, il Muro. Perché ero tra quelli che, fin da subito, intuivano che dietro il pacifismo e la voglia di disarmo unilaterale di metà anni Ottanta c’erano i rubli della disperazione di chi era perfettamente consapevole che il “Sol dell’Avvenire” stava per tramontare. Non c’erano i mezzi per fronteggiare l’Occidente sul piano della tecnologia, mentre i danni procurati dal Papa polacco (non per altro, bersaglio di un attentato) aprivano un fronte interno – quello delle coscienze – non meno pericoloso di quello esterno, quello degli strumenti.
Io me lo ricordo bene, il Muro. E soprattutto non dimentico gli “utili idioti” che – chissà quanto intenzionali – sottolineavano i nostri difetti per distogliere dalle tragedie dell’altra parte. Nelle canzoni, ad esempio, dove Antonello Venditti se la prendeva con Sting perché quest’ultimo si chiedeva se “i russi amano anche loro i bambini”, o dove Luca Barbarossa, con (sua) ironia, osservava “quanto siamo bravi al di qua del Muro” (sottinteso: noi, col nostro trave nell’occhio, che cerchiamo la pagliuzza in quello degli altri.
Io me lo ricordo bene, il Muro. Perché il comunismo non esiste più, e per fortuna anche comunisti ne sono rimasti pochi. Ma il loro metodo è duro a morire, anche oggi.

BUON COMPLEANNO, ALPINI!

Oggi, 4 novembre, è il 91^ anniversario della Vittoria, che nel 1918 completò il processo di unificazione nei confini voluti da oltre duemila anni di storia della “Nazione Italiana” (e oggi qua e là mutilati, soprattutto ad est).
E’ anche la Festa delle Forze Armate, e ai nostri ragazzi impegnati nelle missioni all’estero va un caloroso abbraccio da tutti gli amici del Casello.
La ricorrenza, cara in sé, lo è anche perché ci permette di ricordare che da 90 anni l’ANA – Associazione Nazionale Alpini – tiene alto (fra le tante, grandiose opere che compie, per lo più in silenzio ed ignorata dalla comunicazione “ufficiale”) il ricordo dei nostri nonni che sul Carso e sulle Dolomiti immolarono la loro gioventù per sconfiggere un nemico superiore per numeri e mezzi.
Nel luglio 1919, mentre l’Italia era percorsa da gravissimi fremiti di matrice anarchica e socialista che quasi colpevolizzavano coloro che avevano combattuto e vinto in quanto portatori di una (per costoro) inaccettabile retorica guerrafondaia e patriottica, ed in nome di un assurdo “abbattimento dei confini” (per i quali, invece, erano morti a migliaia, e moltissimi da eroi), ebbene, in quest’Italia un gruppo di reduci espose il Tricolore – che sovversivi! – in Galleria a Milano, addirittura contro il parere del Prefetto. E nessuno osò.
Perché “gli alpini non hanno paura”, come dice un loro celebre canto, e nessuno è mai passato di lì. Basti ricordare, in tempi più vicini a noi, lo striscione: “Fatevi avanti, se avete coraggio!”, rivolto esplicitamente durante un’adunata nazionale alle BR. Che, infatti, intrise di viltà ed opportunismo, aduse a sparare a poveri Cristi beccati da soli per strada e possibilmente di spalle, non si fecero avanti.
Buon compleanno, Alpini!