4 novembre: perchè è giusto celebrare.

Il quattro novembre ricorre il novantesimo anniversario della Vittoria, quella con la maiuscola che ancora quando andavo alle elementari era la festa nazionale che ricordava il compimento del percorso risorgimentale e la declinazione in stato unitario di una nazione, quella italiana, che può vantare – esempio raro – due millenni di storia.
Una ricorrenza importante, da celebrare con solennità ed enfasi, anche se non mi sentirei di definirla propriamente una festa: a fianco delle motivazioni che possono portare ad un sentimento collettivo di euforia (la vittoria, la Patria finalmente riscattata, la consapevolezza di essere popolo e comunità nazionale) c’è però il grande rispetto per le migliaia di vite travolte da eventi tragici, ed i grandi sacrifici sopportati dai nostri padri e nonni.
In questo contesto, che non mi pare poi così grondante di sciroppi nazionalistici e patriottardi, c’è sempre chi riesce a sorprendere per intempestività e acrimonia: basta guardare l’acida campagna di boicottaggio alle celebrazioni lanciata da “Liberazione”, il quotidiano rifondarolo, che annovera tra i protagonisti personaggi dei quali si potrebbe citare l’ormai classico “Nomen Omen” (Mao Valpiana, Lidia Menapace…) ed il sempre sgradevole e rozzo Angelo D’Orsi. Questo sedicente studioso è noto fra le persone di normali capacità intellettive soprattutto per le strampalate teorie in base alle quali sarebbe necessario vietare ai dilettanti – con specifico riferimento a Giampaolo Pansa, che però lo sbeffeggia al punto che se io fossi in lui girerei sempre mascherato con il complesso “occhiali-naso-barba” per la vergogna – di raccontare la storia, in modo che a farlo siano solo i “professionisti” (come il livido D’Orsi). Capito, il democratico?
Ebbene, questo mistificatore del tempo passato, questo Cagliostro della memoria si chiede, retoricamente, cosa ci sarà mai da festeggiare. In altri contesti più evoluti la storia la si studia, e pure bene, e il novantesimo della Grande Guerra non è occasione per libagioni ma per convegni e approfondimenti, lontani da quella che il titolo definisce la “canea nazionalista”, dalla quale è salubre tenersi alla larga. Una guerra che produsse enormi cambiamenti, tra i quali un nuovo protagonismo delle masse di cui – questa è bella – le rivoluzioni russe furono il frutto buono (sic!) mentre nazismo e fascismo rappresentarono quello avvelenato.
Non vale la pena dilungarsi su certe posizioni, sia per quanto dicono – mi chiedo come sia possibile nel 2008 anche solo continuare a pensare che il comunismo, soprattutto quello “reale”, non sia un’ideologia orribile, per persone dotate di comune buon senso -, sia per chi le dice, gente che – scrisse qualcuno – se l’Italia fosse in guerra contro i pidocchi si schiererebbero con i pidocchi pur di non stare con l’Italia.
Per rispondere a tono, per definire nel modo migliore quello che dev’essere il vero sentire comune della nostra comunità nazionale di fronte a momenti come questo, riporto alcuni brani dell’articolo che Giangaspare Basile, redattore capo de “L’Alpino”, il mensile edito dall’Associazione Nazionale Alpini (non certo una pericolosa congrega di reazionari), di cui ho l’onore ed il privilegio di far parte, dedica all’evento. Non c’è enfasi, né canea nazionalista, né epica guerrafondaia, come pretenderebbe qualcuno. C’è invece il buon senso di saper guardare in tutte le medaglie entrambe le facce. Una cosa incomprensibile per il totalitarista autentico.

“C’era una volta… la Grande Guerra. La fine non fu celebrata più di tanto: perché la pace fu considerata “mutilata” per l’accettazione solo parziale delle richieste italiane alla Conferenza di Parigi, perché gli intellettuali e le tante voci incendiarie che avevano spinto al conflitto ne stavano raccontando gli orrori, avendo perso nelle trincee del Carso e dell’Ortigara ogni furore. Ma soprattutto per le condizioni sociali ed economiche comuni a tutti i Paesi belligeranti, condizioni che in Italia (e in Germania) avrebbero portato alla dittatura e all’isolamento degli interventisti pentiti.
Nel secondo dopoguerra si è andato progressivamente affievolendo il senso di appartenenza nazionale, con conseguente decadimento dei valori e perdita di identità. L’occasione di riproporci il nostro recente passato ci è stata data dalla scadenza del 90° della fine della prima guerra mondiale. Non che le genti del Triveneto ne avessero bisogno (fu combattuta sulle loro terre che ne conservano ancora tante testimonianze), ma ne hanno bisogno tutti gli italiani in generale, per riprendere coscienza della conquistata e sofferta unità.
La ricorrenza è molto di più d’un semplice anniversario storico: ci riporta al ompimento del nostro Risorgimento attraverso tante celebrazioni, convegni, eminari, saggi, pubblicazioni di memorie che raccontano – al di sopra di ogni suggestione o condizionamento ideologico – quanti infiniti e sovrumani sacrifici abbiano sostenuto i nostri Padri, quali sofferenze e devastazioni abbia sopportato il nostro Paese. E ci ammonisce – dopo aver abbandonato il secolo più sanguinario e devastante che la storia ricordi, per la dimensione e la frequenza delle guerre che l’hanno attraversato – che tutto ciò non deve accadere mai più.”

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